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Da "Umanità Nova" n. 36 del 9 novembre 2003

Medio Oriente
Stallo Mortale


Il lungo conflitto tra israeliani e palestinesi - la cui esatta denominazione ha dovuto passare il vaglio distorsivo di un conflitto ora tra arabi ed ebrei quando la dimensione politica veniva sottaciuta e il ricorso al sostantivo religioso era funzionale a suggerire schieramenti pro-Israele sulla scia dei sensi di colpa (europei, non certo arabi) per la gravissima responsabilità della Shoah; ora tra israeliani e arabi quando il nazionalismo palestinese veniva riassorbito in un panarabismo piuttosto menefreghista del destino dei palestinesi in quanto esponenti di una convinzione laica e non musulmana dell'organizzazione nazionale della società - convive da sempre con tanti progetti di pace, numerosi quante le azioni militari intraprese da ambo le parti. Registrare situazioni e tendenze dalle mappe disegnate sul terreno di scontro e elaborate come arma politica nei palazzi del potere è un esercizio utile per comprendere lo stallo attuale.

Nella sua lunga carriera militare prima e politica poi, l'attuale premier israeliano - quel boia Sharon feroce massacratore dei profughi insediatisi nei campi libanesi di Sabra e Chatila per cui andrebbe sottoposto immediatamente a processo per crimini contro l'umanità, al pari di un Pinochet o di uno Stalin redivivo - è stato anche negli anni '80 ministro delle infrastrutture, uno dei più importanti dicasteri nella nomenklatura di governo in quanto punto di sintesi di programmi di insediamento coloniale e di dotazione di infrastrutture, appunto, in aree occupate dall'esercito sin dal 1967 e tuttora rette da appositi decreti militari.

Allora Sharon si rese protagonista, per così dire, di un ennesimo progetto di pace per sanare e legittimare sino al punto più spinto possibile l'occupazione illegale di territori arabi da parte dei militari e dei coloni. Dalla mappa di quel progetto, è leggibile sin da subito come l'attuale premier non abbia fatto altro che riprendere dal chiuso di un cassetto quel piano e realizzarlo oggi che ne ha gli strumenti di potere e le condizioni al contorno ottimali (la guerra al terrorismo internazionale con cui si giustifica il terrore nei territori occupati sia da parte di Hamas e dintorni, sia da parte del persistente tallone di oppressione militare che ha ricadute micidiali sulla salute, l'economia e la dignità di vita dei palestinesi).

Quella mappa disegnava con decenni di anticipo il progetto di costituire delle enclave alla maniera dei bantustan, innalzando il famigerato muro di separazione che priva di continuità territoriale non solo il futuro stato palestinese, ma anche e soprattutto le terre su cui coltivano gli agricoltori palestinesi, le strade che dovranno servire da collegamento per le municipalità e i villaggi palestinesi, per non parlare della possibilità di contatto tra famiglie palestinesi divise dal muro. Sharon aveva progettato sulla carta l'attuale panorama di divisione infinita tra israeliani e palestinesi, ovviamente prendendosi per sé il meglio degli assi viari riservati ai propri cittadini (di serie A, arabi esclusi), delle risorse agricole, dei pozzi di acqua.

La proposta di pace abbozzata a Ginevra da esponenti di interessi e fazioni già dichiarate traditrici dai fautori del conflitto ad oltranza da entrambe le parti, giacché la guerra può essere una prospettiva di conquista del potere per talune élite, nonché di desviluppo che arricchisce pochi e impoverisce molti, cerca di ovviare a taluni esiti perversi di questa logica di spartizione del territorio, di scambio tra popolazioni residenti abusivamente su proprietà altrui e tutelate manu militari, di denegazione del diritto al ritorno dei profughi dal 1948 in poi, di smilitarizzazione a senso unico del neo-stato palestinese. Anche queste idee sulla carta risalgono ad anni addietro, esattamente al piano Clinton del Natale 2000, e rifiutate da Arafat in un sussulto di dignità in quanto nulla davano e riconoscevano alla lotta palestinese, nonostante la massiccia propaganda statunitense e mondiale sia riuscita ad addebitare a tale rifiuto la fine del processo di pace di Oslo e l'inizio della II Intifada militarizzata come non lo era stata la prima, risultata a favore del Davide palestinese contro il Golia israeliano.

In realtà, le bocce sono ferme sia perché la situazione internazionale già altamente instabile paradossalmente non favorisce una novità storica quale una reale pace in Medio oriente, visti gli interessi geopolitici a endemicizzare una condizione caotica e micidiale per il mondo arabo da costringerlo a percorrere la strada di violenza in condizione di debolezza smisurata, perdendo sia la battaglia sul campo che la guerra mediatica, laddove mimare il più forte risulta sempre perdente. D'altro canto, va anche considerato come la leadership palestinese sia scossa dal male che assale Arafat, che non ha alcun successore designato e autorevole - l'unico con seguito popolare è Marwan Barghouti incarcerato nelle prigioni israeliane che prevedibilmente lo rilasceranno il giorno che tornerà loro utile per porre le premesse di un progetto di pace di cui Barghouti potrà essere il leader storico a patto di capitolare e garantirne il successo proprio ai suoi ex avversari e aguzzini. La controparte, con i suoi limiti, è pur sempre una democrazia blindata che integra al proprio interno senza scossoni la possibilità di ricambi al vertice senza subire traumi significativi, a differenza della realtà araba in generale, e palestinese in particolare. Sin quando Arafat non morirà, è facile prevedere come lo stallo politico verrà segnato da giri di valzer più o meno sterili, da progressi sul piano dell'imposizione di stati di fatto, quale l'erezione del muro, nonché dal solito e orrendo stillicidio di vittime, secondo la tragica proporzione offuscata dai media e dalle azioni dei kamikaze, che ancor oggi vede tre morti su quattro essere di identità palestinese.

Salvo Vaccaro








 

 



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