Da "Umanità Nova"
n. 37 del 16 novembre 2003
Un altro antimperialismo è possibile Le amare seduzioni del terzomondismo
All'interno
del composito movimento contro la guerra, da tempo si è riaperto
un aspro confronto teorico tra componenti diverse attorno a cosa
significa oggi essere antimperialisti.
Tanto per essere chiari, vogliamo dire la nostra, in quanto comunisti anarchici.
Imperialismo è un termine che ha assunto ed assume
significati diversi: da un punto di vista economico indica la tendenza
degli stati e del capitalismo ad annettere territori da saccheggiare,
per esportarvi capitali e per invaderli con le proprie merci; da un
punto di vista politico implica il ricorso sistematico alla guerra e
alla soppressione delle libertà sociali; da un punto di vista
ideologico coincide con la mitizzazione del sistema dominante,
spacciato come unica garanzia di sviluppo.
UN PO' DI STORIA
Fin dal suo sorgere l'imperialismo ha visto da un lato
l'affermarsi di associazioni monopolistiche internazionali di
capitalisti - le cosiddette multinazionali - che si sono spartite il
mondo, dall'altro ha alimentato le contrapposizioni nazionali e i
nazionalismi, in nome dei quali i popoli vengono puntualmente chiamati
a scannarsi per conto terzi.
Infatti, già alla vigilia della Prima guerra mondiale -
ossia del primo conflitto imperialista - l'internazionalista anarchico
Errico Malatesta osservava che "per noi le rivalità e gli odi
nazionali sono tra gli strumenti più efficaci di cui dispongono
i dominatori per perpetuare la schiavitù dei lavoratori, e noi
dobbiamo combatterli con tutta la nostra forza".
Tale visione, mettendo fine al patriottismo risorgimentale,
era del tutto coerente col punto di vista espresso dall'Associazione
Internazionale dei Lavoratori secondo la quale "il campo internazionale
dei lavoratori è la nostra sola patria; il mondo internazionale
degli sfruttatori, quello è il paese a noi straniero e ostile
(Congresso di Ginevra, 1866, citato da M. Bakunin in "Stato e
anarchia") e all'interno del movimento operaio tale convinzione
appartenne a lungo anche alla componente socialdemocratica tanto da
farle affermare la necessità di "operare senza tregua per
l'eliminazione del capitalismo che divide l'umanità in due campi
nemici e aizza i popoli gli uni contro gli altri (congresso della II
Internazionale di Zurigo, 1893).
Le due guerre mondiali portarono però allo sconquasso
anche le diverse sinistre nazionali che furono lacerate e coinvolte
nella logica interventista e bellicista, o per sudditanza alle
suggestioni patriottiche evocate dagli stati - compreso quello
sovietico - o nell'illusione che la guerra potesse determinare
conseguenze rivoluzionarie o perché ritennero prioritaria la
difesa della democrazia accantonando ogni prospettiva rivoluzionaria.
VENENDO ALL'OGGI
Negli ultimi decenni, anche alla luce della cosiddetta
globalizzazione del capitale e del nuovo ciclo di guerre che si sono
susseguite a partire dalla prima aggressione Usa contro l'Iraq nel
1991, la critica nei confronti dell'imperialismo ha imboccato strade
diverse, influenzando anche le analisi e l'opposizione dei movimenti
contro la guerra.
Da un lato si è visto consolidarsi quel pensiero che
vuole superata la fase degli imperialismi contrapposti e l'apparire
dell'Impero, una sorta di Moloch che tutto divora e tutto liberalizza.
In Italia tale moda intellettuale ha visto il ruolo di Antonio Negri,
ex-teorico operaista che sembra aver dimenticato non solo che tanto
tempo fa il "rinnegato" Kautsky aveva già teorizzato l'avvento
di un "super-imperialismo", ma persino quanto lui stesso scriveva in
"Proletari e Stato" riguardo "il pericolo del risorgere di
contraddizioni imperialistiche di tipo classico, cioè
interimperialistiche, con scadenze di guerra" di fronte a cui restava
"solamente l'alternativa fra una soluzione catastrofica e una soluzione
rivoluzionaria".
La debolezza delle elaborazioni sul fantomatico Impero
è stata evidenziata spietatamente dalle aspre contrapposizioni
interimperialistiche che anche in occasione della "guerra globale
contro il terrorismo" ha visto Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna,
Francia e Germania dividersi su politiche e strategie a causa dei
diversi e divergenti interessi economici rispettivamente tutelati ed
imposti. La gravità di tali contraddizioni è tale da
mettere in crisi organismi sovranazionali quale l'Onu, la Nato e
l'Unione Europea che, nel ponderoso saggio di Negri dedicato
all'Impero, erano stati considerati poco più che delle
succursali di quest'ultimo, così come gli stati dell'occidente
industrializzato venivano considerati alla semplice stregua di
vassalli, valvassori e valvassini.
Contemporaneamente, in apparente contrapposizione dialettica,
ha fatto la sua comparsa una posizione antimperialista, erede del
terzomondismo e del guevarismo che negli anni settanta sostennero le
lotte di liberazione nazionale combattute dall'Africa all'America
Latina, dall'Indocina alla Palestina.
Secondo questi antimperialisti "postmoderni", la coincidenza
tra imperialismo e Usa è pressoché totale e quindi per
sconfiggere quest'ultimi ogni alleanza non solo è lecita ma
persino necessaria, a partire proprio dagli Stati "canaglia" e da tutti
i nazionalismi ostili al nuovo ordine dettato da Washington, ritenendo
superata anche la distinzione destra-sinistra. Da qui la rivendicazione
di un "antiamericanismo" che pur volendosi richiamare al marxismo,
sembra aver dimenticato il primo rigo scritto da Marx ne Il Manifesto:
"La storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è
storia delle lotte delle classi".
Infatti, nella comune lotta antimperialista si arriva a prospettare
l'unità strategica con le masse arabo-islamiche, con movimenti
nazional-populisti con aperta vocazione razzista, con le borghesie
nazionali e i regimi dei paesi minacciati dall'egemonia Usa, con
settori antimodernisti del movimento anti-globalizzazione.
In antitesi a questi due "nuovi" modi di considerare l'imperialismo e
quindi l'antimperialismo, resiste comunque una prassi anticapitalista,
sia di matrice comunista che anarchica, che continua a considerare
centrale il conflitto di classe, tra sfruttati e sfruttatori, e non
quello tra un immaginario Impero e indefinite "moltitudini" oppure tra
gli Stati Uniti e le nazionalità oppresse; semmai si giunge a
ricercare una convergenza tra i diseredati e i senzaterra del Sud del
mondo con i proletari dei paesi industrializzati.
D'altro canto, abbandonare l'internazionalismo proletario a
favore di ambigue prospettive oltre la destra e la sinistra, espone al
pericolo della penetrazione culturale e della strumentalizzazione da
parte della destra radicale, rappresentanti della quale o personaggi
comunque provenienti da essa non esitano a partecipare ai movimenti
antiglobalizzazione e antiamericani, come dimostrano alcune discusse
adesioni sia al Social Forum europeo di Firenze che alla prossima
manifestazione a sostegno della resistenza irachena del 13 dicembre,
inevitabilmente causa di reciproche accuse e polemiche pretestuose.
Inoltre continuare a giocare la carta dell'antiamericanismo,
significa distogliere lo sguardo dalle malefatte degli altri
imperialismi e trovarsi del tutto indifesi di fronte alla progettata
costituzione di un esercito europeo, strumento attraverso il quale
l'Unione Europea potrà intervenire militarmente in modo
autonomo, anche e soprattutto contro gli interessi Usa, e disporre di
un formidabile strumento repressivo interno.
I FONDAMENTALISTI SONO ANTICAPITALISTI?
Seguendo il tatticismo che fa considerare "amico" ogni "nemico
dei nostri nemici", alcuni settori antimperialisti da tempo
sottolineano la valenza "rivoluzionaria" dell'Islam, ipotizzando
alleanze nel nome dell'antiamericanismo non solo con le cosiddette
masse arabo-islamiche, ma persino con le rispettive borghesie e
oligarchie al potere.
Tale deriva oltre a negare l'idea stessa della lotta di classe, non fa
i conti con la stessa realtà dei rapporti di dominio all'interno
delle società islamiche.
Nel mondo ci sono milioni di musulmani diseredati che sono
sfruttati dai capitalisti locali - anch'essi di fede islamica - che
fondano i loro scandalosi privilegi sullo sfruttamento dei propri
"fratelli" e che manipolano la religione, sostituendo ogni senso di
solidarietà e umanità con un nazionalismo violento,
xenofobo e conservatore che divide e annulla la classe lavoratrice. Non
casualmente infatti un regime corrotto come quello dell'Arabia Saudita
da sempre finanzia i gruppi dell'integralismo islamico ma non i
movimenti di resistenza di matrice laica o marxista.
Analogamente in Iran, sotto il regime islamico degli
Ayatollah, dopo la rivoluzione del 1979, sono stati ferocemente
repressi i sindacati dei lavoratori, il partito comunista, i mujahidin
del popolo, le associazioni di donne e alcuni gruppi anarchici che
aveva partecipato all'insurrezione contro il regime dello Scià.
Così in Indonesia, i fondamentalisti negli anni sessanta
collaborarono con la Cia ed il regime di Suharto nello sterminio dei
comunisti e dell'etnia cinese. Analogamente gli Stati Uniti in passato
hanno appoggiato gli integralisti islamici in Afganistan in funzione
anti-sovietica ed hanno trescato per decenni con lo stesso Bin Laden,
mentre in Palestina la nascita del gruppo Hamas, oggi accusato di
terrorismo, fu favorita proprio dagli stessi servizi segreti israeliani
e dalla Cia allo scopo di frenare la componente socialista nella
resistenza palestinese, ben radicata in gruppi quali l'OLP e il FPLP. E
allo stesso modo abbiamo assistito, in occasione dell'aggressione Nato
alla Serbia nel 1999, al sostegno Usa verso i mercenari islamici
dell'Uck.
IL NOSTRO ANTIMPERIALISMO
Lottare contro l'imperialismo significa in primo luogo
demolirne il mito che sovente i suoi nemici contribuiscono a
rafforzare; gli esiti disastrosi dell'aggressione all'Iraq stanno
impietosamente mostrando che più che di fronte ad una "guerra
globale permanente" siamo davanti a quello che lo studioso Emmanuel
Todd ha definito "micromilitarismo teatrale", ossia un avventurismo
militare che gli Usa utilizzano per cercare di nascondere la propria
crisi e compensare la perdita d'egemonia mondiale.
Da questo punto di vista, coglievano nel segno i maoisti quando definivano l'imperialismo una tigre di carta.
In secondo luogo opporsi all'imperialismo significa
riconoscere il fatto che la politica dei governi italiani, sia di
centrosinistra che di centrodestra, sia nella variante europeista che
in quella filoamericana, risponde a logiche perfettamente imperialiste.
Inoltre è necessario liberarsi dalle illusioni
sull'autodeterminazione dei popoli e sulle guerre di liberazione
nazionale che, nei migliori dei casi, hanno visto il passaggio del
testimone dello sfruttamento dai padroni stranieri alle neonate
borghesie e burocrazie dei paesi usciti dalla sudditanza coloniale.
Per questo rifiutiamo ogni nazionalismo, sia vincente che
perdente, in quanto alla resa dei conti tende puntualmente a confermare
gerarchie sociali o a creare nuove élite dominanti ai danni
delle classi subalterne; così come non crediamo che si possa
giungere ad un'autentica liberazione individuale e collettiva
attraverso qualsiasi fondamentalismo religioso tendente, per sua
natura, a negare l'idea della libertà individuale e ad esaltare
l'obbedienza fideistica di massa.
D'altra parte, la stessa storia dei popoli è, in ultima
analisi, il risultato dell'azione e della volontà degli
individui nonché il prodotto del conflitto tra le classi -
classi con interessi divergenti e quindi anche con culture antagoniste
pur se facenti parte dello stesso popolo o della stessa nazione.
Detto questo non siamo neutrali o indifferenti davanti al
dilagare dell'incendio sociale e solidarizziamo con chiunque resiste
alla politica di guerra-sfruttamento-oppressione dei capitalisti e
degli stati, ma l'anticapitalismo anarchico rimane quello delle lotte
dei lavoratori e dei senza potere, che a tutte le latitudini e sopra
ogni appartenenza nazionale, si riconoscono classe in rivolta contro
una società divisa in classi.
Jean Rabe
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