Da "Umanità Nova"
n. 39 del 30 novembre 2003
I due Revelli
Violenza e non-violenza
Sentire
accusare di indulgenza nei confronti dei violenti un signore benvestito
e beneducato come Fausto Bertinotti non è certo cosa frequente,
tanto meno se tale accusa proviene da sinistra; per questo la lettera
scritta dal noto sociologo Marco Revelli al segretario di Rifondazione
Comunista (pubblicata sulla rivista Carta e sul quotidiano Liberazione
del 13 novembre) merita qualche commento da parte nostra.
Revelli che improvvisamente sembra aver scoperto quanto gli
anarchici da sempre sostengono sulla coerenza mezzi-fini, sostiene "che
sia il momento di ridiscutere a fondo il rapporto tra mezzi e fini. Che
non ci si possa più accontentare della convergenza sui fini, che
tutti bene o male condividiamo, e su cui il dibattito si fa
stucchevole; ma sia venuto piuttosto il momento di affrontare la
questione dei mezzi, del tipo di strumenti e di pratiche con cui
perseguire quei fini".
Sino a qua un discorso così condivisibile da apparire persino
banale, ma che comincia a cortocircuitare quando Revelli giunge non
solo a definire l'azione non-violenta come "la forma più estrema
dell'antagonismo", ma arriva a teorizzare "l'assunzione strategica e
discriminante della non-violenza".
Così, dopo aver giustamente criticato l'autoritarismo
insito in ogni pratica violenta, Revelli inaugura un "nuovo"
autoritarismo discriminante sotto la bandiera della non-violenza che,
per certi versi, s'imparenta coi metodi con cui i cosiddetti
Disobbedienti sono soliti imporre le ragioni della loro idea di
non-violenza, come recentemente successo a Marghera.
Che tale sospetto sia più che fondato è
confermato dal passo in cui Revelli mette sullo stesso piano "br,
lottarmatisti, black bloc, ecc.", accomunando disinvoltamente chi opera
in clandestinità e chi scende in strada, chi spara a
persone-simbolo e chi se la prende con vetrine-simbolo, chi si prefigge
il comunismo di stato e chi prefigura un comunismo senza stato.
D'altra parte che il noto intellettuale, tanto celebrato da
certa sinistra, non sia molto credibile nell'impartire lezioni in fatto
di coerenza tra mezzi e fini è confermato da quanto
affermò dopo l'omicidio politico D'Antona: "L'unica speranza che
ho è che li arrestino. Che li arrestino in fretta, che li
portino in galera perché tutti possiamo capire chi sono" (Il
Manifesto, 22 maggio '99, pag. 6).
Sarebbe infatti interessante sapere dal sociologo Revelli come
il mezzo della galera da lui auspicato possa conciliarsi con il fine di
una società libera dalla violenza.
Sandra K.
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