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Da "Umanità Nova" n. 40 del 7 dicembre 2003

Paradossi europei
La rottura del "patto di stabilità"

È scoppiato come una bomba a tempo, dopo una lunga incubazione, e l'esplosione produrrà senza alcun dubbio un'onda d'urto molto lunga e duratura. Si tratta del patto di stabilità e di crescita, entrato in crisi dopo 13 ore di discussione, nella nottata tra il 24 ed il 25 novembre, al vertice Ecofin di Bruxelles tra tutti i ministri delle Finanze dei 15 Paesi aderenti alla Cee. Vediamo di cosa si tratta, se siamo in presenza di una buona o una cattiva notizia, cosa ci possiamo aspettare negli anni a venire.

Il patto in questione era stato siglato ad Amsterdam nel 1997 ed era il naturale prolungamento della cornice disegnata con il trattato di Maastricht di cinque anni prima. Il patto prevede: il mantenimento di un rapporto massimo del 3% tra deficit e pil; la ricerca e l'osservanza di un rapporto massimo del 60% tra debito e pil; una procedura di "avvertimento" (early warning) ai Paesi che si avvicinano alla soglia del 3% e di raccomandazione per i Paesi che la superano; un sistema di multe per i Paesi che sfondano questo parametro per più di due anni consecutivi.

La questione che doveva dirimere il vertice Ecofin era delle più rognose: Francia e Germania si avviano, per il terzo anno consecutivo, a sfondare la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e Pil e quindi si presentava, per la prima volta, l'esigenza di applicare sanzioni effettive a qualcuno che si appresta a violare le regole. Solo che Francia e Germania non sono due paesi qualunque: fanno farte del nucleo storico dei sei Paesi che hanno fondato l'Unione, hanno insieme un peso del 43% sul Pil della Uem, sono i pesi massimi della Comunità. In più sono quelli che hanno "fatto" le regole, da imporre agli altri, in un tempo storico e in un contesto economico completamente diverso da quello attuale. Maastricht nasce all'inizio degli anni '90, in una economia gravata da alti tassi d'inflazione, tassi d'interesse in crescita, pesanti deficit pubblici e politiche di spesa rilassate, concentrate soprattutto nel ventre molle dell'Europa mediterranea. L'Europa del Nord pretende ed impone paletti rigidi per forzare la convergenza degli spendaccioni del sud, che iniziano da quel momento un pesante processo di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica. A convergenza ormai maturata, nel 1997, si vara un patto di stabilità che vincola al mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti, prevenendo il rilassamento dei comportamenti politici.

Oggi siamo in un contesto totalmente diverso. La morsa della recessione e della stagnazione ha finito per mettere in difficoltà, prima di tutti, i paesi guardiani dell'ortodossia monetarista, impedendo ai governi dell'Europa tutta l'adozione di quelle politiche anticicliche che in fasi precedenti consentivano una gestione più morbida delle crisi economiche. A dire il vero, tutti sono arrivati a convincersi, nel corso del tempo, che il patto era "stupido" e persino Prodi aveva finito per ammetterlo pubblicamente. L'esistenza di quel patto ha legato le mani ai governi nazionali, che l'hanno usato spesso come alibi per spiegare la stagnazione dell'economia, mentre cercavano in tutti i modi di inventarsi qualche trovata per poterlo aggirare. Nonostante le sparate ideologiche, la spesa pubblica è incomprimibile e lo dimostra il fatto che persino in Italia, sotto il tallone della destra sedicente liberista, tra il 2001 ed il 2003, la spesa pubblica è salita dal 41,7 al 42,5 in percentuale del Pil. Di fatto questi ultimi tre anni di recessione economica hanno fortemente deteriorato la situazione della finanza pubblica di tutti i principali paesi e quindi la difesa rigida delle regole stabilite oltre sei anni fa si è dimostrata anti-storica, sterile, priva di qualunque utilità. Sono state avanzate molte proposte per aggiornare il patto: ad esempio un Commissario europeo, il bocconiano Mario Monti, ha proposto di contabilizzare al di fuori del deficit le spese per le infrastrutture; Giscard d'Estaing e Delors hanno proposto di escludere le spese di ricerca e sviluppo; i vari governi hanno tentato di fare slittare in avanti nel tempo i termini per il riaggiustamento strutturale dei bilanci pubblici. Ogni volta questi tentativi di "ammorbidimento" sono andati a cozzare contro la rigidità dei banchieri centrali e l'ostilità della Commissione Europea, preoccupati di difendere le bronzee leggi che regolano la stabilità della moneta. Moneta che ha guadagnato di valore contro il dollaro, è vero, ma più per i guai altrui che per meriti propri. Inoltre è un guadagno assai poco gradito ai "poteri forti", quelle multinazionali che esprimono in export gran parte del loro fatturato e che sono oltremodo danneggiate dalla svalutazione del dollaro (o rivalutazione dell'euro, se si preferisce), che da un anno a questa parte si è mangiata il 40% dei loro profitti. Una concertazione di eventi, dunque, ha favorito il recente "show-down" tra governi e Commissione: il vertice Ecofin di fine novembre non ha sepolto il fatto di stabilità, ma gli ha inferto una prima, seria, picconata.

Qual era l'oggetto del contendere? Francia e Germania si avviano a sfondare nel 2004, per il terzo anno consecutivo, la soglia del 3%: in questo caso il sistema prevede una prima sanzione pari allo 0,2% del Pil (una multa, in sostanza); in caso di mancato rientro, una ulteriore sanzione pari al 10% della percentuale di sforamento. Si tratta di una somma tutto sommato gestibile, ma è diventata di fatto una questione di principio, l'occasione politica per attaccare i tecnocrati. Nel braccio di ferro i due Paesi hanno chiesto e ottenuto la sospensione delle sanzioni, in cambio dell'impegno a ridurre il deficit in due tappe entro il 2005. Questa decisione, che mina la credibilità del patto perché lo priva del potenziale deterrente sanzionatorio, è stata approvata a maggioranza, con il voto contrario di Spagna, Austria, Olanda e Grecia, mentre Tremonti, per l'Italia presidente di turno, si è speso per mediare in favore di Francia e Germania, con il determinante aiuto della Gran Bretagna di Blair (che ricuce così dopo lo strappo sull'Iraq).
Questa posizione e la conseguente decisione sono state duramente attaccate dall'Ulivo e dal centro-sinistra italiano, che ha parlato di dieci anni di sacrifici buttati al vento e di una irresponsabile decisione anti-europea, mentre altri da sinistra, a cominciare da Bertinotti, hanno accolto la notizia con molto entusiasmo. Su questa paradossale presa di posizione della sinistra liberale occorre forse spendere qualche riga.
È vero che il credito aperto da Tremonti agli impegni franco-tedeschi sul rientro dal debito può essere considerato un investimento per il futuro. Tremonti sa di dovere, forse in un futuro non lontano, chiedere le stesse cose che oggi ha concesso ai paesi sfondatori: quando avrà esaurito la batteria degli strumenti una-tantum con cui ha sinora tappato le falle della sua politica finanziaria truffaldina, quando dovrà cominciare (probabilmente un po' prima delle prossime elezioni politiche) a tradurre in denaro sonante le promesse di riduzione delle tasse che il suo datore di lavoro ha promesso agli italiani, qualche problema di sforamento si presenterà anche per l'Italia. Chiedere, a quel punto, di considerare i precedenti, sarà un passo e tutt'uno.

È vero che lo stare in Europa ha concesso all'Italia di attraversare questi ultimi, agitati, anni, sotto lo scudo dell'euro e della stabilità dei tassi, e che minare la credibilità dell'integrazione comunitaria può avere delle conseguenze serie per l'enorme debito pubblico italiota (Standard & Poor ha subito minacciato un declassamento del rating); è vero che Belgio e Grecia sono riusciti a scendere sotto il 100% del rapporto debito/pil, mentre l'Italia sta a 106 con molta fatica e numerosi trucchetti; è vero che la destra è liberista a parole e protezionista nei fatti. Ma arrivare a barricarsi, come fanno Fassino, Letta, Prodi, Rutelli e persino Mastella, dietro al patto di stabilità, gridando alla lesa maestà, significa assumere una posizione ridicola e patetica, mandando al macero anche il buon senso.

Accodarsi alle posizioni più ortodosse, difendere la Bce, mettere la moneta al centro della propria strategia politica è per la sinistra una scelta di profondo autolesionismo. Mentre la destra cavalca i temi sociali a presa facile, la sinistra sceglie di parlare ai tecnocrati. Le politiche dell'Europa di Maastricht non hanno portato alcun contributo allo sviluppo economico, anzi l'hanno ingessato, hanno accresciuto la dipendenza della Comunità dalle sorti del ciclo mondiale. Anziché favorire la nascita di un polo economico forte ed autonomo, capace di trainare (come gli Usa) la crescita, hanno costruito una gabbia sempre meno confortevole anche per i suoi abitanti. Il livello di vita è calato come conseguenza delle politiche di restrizione sociale, ma sono aumentate le prebende ed i trasferimenti alle imprese, che non li hanno usati per fare ricerca e innovazione, ma per chiudere e aprire da un'altra parte, sfruttando i differenziali salariali e la fame di lavoro delle zone depresse. Invece di entrare nel merito del modello di sviluppo e della qualità della spesa, la sinistra sceglie di arroccarsi sul rispetto rigido di regole astratte, criticate, attaccate e vilipese da ogni economista di buon senso. Se l'allentamento dei vincoli incontrerà sulla sua strada la ripresa economica, la destra potrà fregiarsi di una scelta coraggiosa e positiva, capace di agganciarsi al "trend", facendo ripartire l'economia al momento giusto e lasciando alla sinistra l'ennesima occasione per leccarsi le ferite. Per quanto riguarda noi, non possiamo che salutare con piacere il plateale fallimento di una politica sbagliata. Tuttavia nessuna illusione deve contagiarci. L'allentamento della spesa pubblica può tradursi, come nell'America di Bush, in un bilancio militare da 400 miliardi di dollari l'anno, cui occorre aggiungerne altri 87 per l'intervento in Iraq ed Afganistan, e per sovrapprezzo 9,3 per le installazioni militari. Il "deficit spending" americano di Bush è possibile per l'avanzo di bilancio ereditato da Clinton, mentre in Europa neanche il definitivo abbandono del patto di stabilità (ben di là da venire e tuttora soltanto probabile), farebbe venir meno le politiche di taglio alla spesa sociale cui ci hanno abituato negli ultimi anni i governi di ogni colore.

È auspicabile, ed è forse l'unica opportunità aperta dalla crisi del patto, che il ripensamento di una politica economica comunitaria rilanci, contro ogni fredda logica economica e monetaria, un movimento capace di porre all'ordine del giorno la forza delle sue ragioni, l'urgenza delle proprie istanze, il peso delle nuove lotte. Da qui, e non dai bunker delle banche centrali, può cominciare a crescere l'altra Europa possibile, partendo dalla conquista conflittuale di livelli più avanzati di libertà e benessere sociale.

Renato Strumia







 

 



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