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Da "Umanità Nova"
n. 40 del 7 dicembre 2003
Costruire la fiducia
A colloquio con due anarchici israeliani
Ramallah: Jonathan e Liad all'ombra del muro
Se
si eccettuano i prigionieri di guerra, la media dei cittadini
dell'Oceania non ha mai veduto, con i propri occhi, un abitante
dell'Eurasia o dell'Estasia, e la conoscenza delle lingue straniere gli
è proibita. Se gli si permettesse di avere contatti con essi,
egli scoprirebbe che sono creature del tutto simili a lui e che la
maggior parte delle cose che gli sono state dette su di essi sono
bugie. Le barriere del mondo chiuso dove egli vive verrebbero infrante,
e la paura, l'odio e la sicurezza di sé, da cui dipende la sua
morale, verrebbero dissolte. È quindi sottinteso che le
frontiere non debbono essere attraversate che dalle bombe.
George Orwell, "1984"
Il 9 novembre 2003 è stata organizzata una giornata mondiale di
mobilitazione contro il muro di separazione in costruzione in
Cisgiordania. Azioni simboliche e di sensibilizzazione sono state
compiute in moltissime città per attirare attenzione sul folle e
criminale progetto del governo Sharon, denunciato non solo come
violazione della "legalità internazionale", ma anche come
insormontabile ostacolo ad una futura pacificazione dell'area, e
soprattutto lesivo di ogni basilare diritto della popolazione
palestinese. La cosiddetta "barriera di separazione" o per meglio dire
muro dell'apartheid, di cui sono già stati costruiti 150 dei
primi 650 km previsti, non si limita a separare, per presunti motivi di
sicurezza, la popolazione israeliana da quella palestinese, ma
penetrando nei Territori Occupati ed accerchiando molti centri abitati,
espropria terre, distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione
dalle proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni ancora
più difficoltosi di quando già non faccia l'attuale
sistema di suddivisione in aree e annette, di fatto, una larga
percentuale di territorio palestinese, soprattutto intorno alle zone
degli insediamenti israeliani e a quelle strategicamente ed
economicamente più interessanti. Il muro trasforma tutta la
Cisgiordania in una prigione a cielo aperto, con al suo interno alcune
"celle di isolamento", nuclei abitati totalmente chiusi rispetto
all'esterno, come la tristemente nota Qualqilya.
Le azioni di protesta mondiali sono trascorse
nell'indifferenza più totale delle fonti di informazione
tradizionali. Sui media, normalmente attenti a rendere conto di macabri
dettagli in arrivo dal Medio Oriente, non è apparsa nessuna
notizia sulle azioni compiute in Palestina. Nei pressi del villaggio di
Zbube un gruppo di palestinesi, israeliani e internazionali ha tagliato
e parzialmente rimosso 20 metri della barriera in costruzione,
fronteggiando senza grossi incidenti l'esercito israeliano
(http://indymedia.org.il/imc/webcast/71966.html). Azioni dirette come
questa sono assai più frequenti e più incisive di quanto
si potrebbe pensare e non vedono solo la partecipazione di
internazionali, ma anche di parte della popolazione palestinese e di
attivisti e attiviste israeliane.
All'inizio di ottobre ho avuto occasione di incontrare a Ramallah
Jonathan e Liad, due anarchici di Tel Aviv, abitualmente impegnati sia
in Palestina in azioni di resistenza all'occupazione sia in Israele in
progetti diversi legati alla costruzione di media alternativi,
all'animalismo e al femminismo radicale. La lunga e dettagliata
descrizione che mi hanno offerto delle loro attività e del
significato che gli attribuiscono, delle difficoltà che
incontrano da entrambi i lati della green line, e la lucida analisi
della pesante atmosfera di nazionalismo e militarismo che pervade gran
parte della società israeliana, possono permettere di capire un
po' meglio il senso di un'azione come quella del 9 novembre a Zbube.
Il tipo di pratica politica che cercano di portare avanti si
centra proprio sul tentativo di creare le basi per "joint direct
actions", azioni dirette congiunte tra israeliani e israeliane che
combattono la politica di Israele e palestinesi. I decenni di
occupazione militare e di apartheid e, più recentemente, gli
ultimi tre anni di seconda Intifada, hanno prodotto una separazione
pressoché assoluta tra le due società. È diventato
così per loro prioritario, rispetto ad ogni ipotesi di azione di
resistenza, costruire quelle relazioni personali di fiducia che sono la
base dell'azione politica. È un punto su cui gli altri gruppi
pacifisti israeliani, a loro parere, lavorano pochissimo. "Non compiono
azioni su un piano di relazioni egualitario. Vanno a portare aiuti
umanitari, a fare giri di conoscenza, ma non li vedi camminare mano
nella mano con la società locale. Anche se probabilmente questi
gruppi solidarizzano politicamente con la causa palestinese più
di noi - io non sostengo la causa palestinese esattamente come non
sostengo la causa israeliana - noi cerchiamo di portare la nostra
solidarietà concreta alle persone che vivono la realtà
dell'occupazione, facendo azioni insieme a loro, resistendo insieme a
loro contro l'esercito occupante, dando in qualche modo l'occasione di
valutarci." È così che nascono rapporti personali,
piccole collaborazioni con comunità disposte ad accoglierli e a
farli partecipare alla loro quotidianità, dove anche il semplice
fatto di continuare a vivere è già una forma di
resistenza.
Oltre all'azione di Zbube un frutto di questa prospettiva
è stato il campo contro la costruzione del muro che si è
tenuto tra primavera e estate a Mas'ha, un villaggio della zona di
Qualqilya che soffre particolarmente degli effetti di distruzione
causati dal muro stesso. Le attività del campo
(http://www.womenspeacepalestine.org/wall_campaign.htm) sono continuate
per quattro mesi, coinvolgendo più di 1000 persone, israeliani,
palestinesi, internazionali. "Il campo di Mas'ha è stato
un'esperienza di reale coesistenza. La gente lavorava assieme su una
base di parità. Si discuteva assieme, si cercavano assieme
strategie, linee di azione. Naturalmente era difficile, ed era
necessario riconoscere le differenze tra di noi. Tutto quanto si basava
sul principio della democrazia diretta, la gente partecipava alle
discussioni in cui si prendevano le decisioni, quasi sempre sulla base
del consenso."
Questo modello di partecipazione congiunta alla resistenza contro
l'occupazione rappresenta un'alternativa concreta e reale alla retorica
della coesistenza, diffusa negli anni di Oslo, tra prima e seconda
Intifada. Una coesistenza basata sull'annullamento delle differenze e
degli squilibri di forze, sull'oscuramento della violenza e ingiustizia
prodotte dallo stato di Israele. "Con la seconda Intifada è
diventato chiaro che tutta quella retorica del 'siamo tutti uguali e
tutti vogliamo la pace' non aveva niente a che fare con una reale lotta
per la giustizia e l'uguaglianza. Quando il sogno di pace di Oslo
è fallito, perché era basato sul nulla, ha distrutto la
fiducia da entrambi i lati e oggi ricostruire questa fiducia è
difficilissimo."
Organizzare la presenza di attivisti israeliani nei Territori
Palestinesi Occupati non ha però solo un effetto immediato di
solidarietà concreta e di effettiva protezione fisica -
l'apartheid implica grandi differenze anche nella repressione e la
presenza di cittadini e cittadine israeliane può diventare un
deterrente rispetto al grado di violenza militare scatenato - ma ha
anche una ricaduta di consapevolezza sulla società israeliana:
"La maniera di fare propaganda che crediamo essere la più
efficace è semplicemente portare altri e altre israeliane a
vedere i Territori Occupati. Gli israeliani devono trovare da soli
questo grado di consapevolezza, devono vedere l'occupazione. È
impossibile e inutile raccontargliela. La maggioranza delle persone che
hanno fatto questa esperienza, che hanno visto, hanno cambiato
totalmente la loro vita, perché per loro è diventato
impossibile non sentire profondamente l'ingiustizia."
Anche se la resistenza contro l'occupazione militare dei
Territori Palestinesi è necessariamente il loro impegno centrale
e predominante, Jonathan e Liad ritengono che questa sia legata al
parallelo tentativo di creare cultura alternativa e relazioni non
gerarchiche all'interno della stessa società israeliana.
Considerano dunque fondamentale, anche se estremamente difficile,
contrastare la militarizzazione dilagante e la retorica della
"sicurezza", con cui viene legittimata ogni violenza contro la
popolazione palestinese. Rifiutare il servizio militare è
perciò il primo elementare passo non solo per opporsi
all'occupazione ma anche per rompere l'ideologia militarista che porta
ad identificare in maniera meccanica essere umano e soldato, sicurezza
e violenza razzista.
Molti gruppi femministi sottolineano poi da tempo i devastanti effetti
che l'occupazione militare riflette su Israele. Conferma Liad: "Bisogna
considerare che la società israeliana è estremamente
violenta, maschilista e militarista; per ogni donna questo rappresenta
una continua situazione di pericolo. Ma la violenza presente nella
società tocca ogni tipo di relazione, non solo quella tra uomini
e donne. È difficile far capire quanto tutto ciò vada nel
profondo. Se sei un soldato, un conquistatore che passa il tempo a
massacrare e umiliare altri esseri umani, non ti fermi quando rientri
in casa. La violenza non è qualcosa che si possa contenere o
limitare a determinati settori della propria vita. Il movimento che si
oppone alla militarizzazione della società israeliana ci sembra
essere estremamente ridotto, ma forse dimentichiamo quanto in là
sia andato questo processo di smoralizzazione della società e di
come sia difficilissimo ormai opporsi e rifiutare attivamente tutto
ciò."
Anche se difficilissimo, il progetto di resistenza attiva perseguito da
piccoli gruppi come quello di Jonathan e Liad continua: le azioni
dirette nei Territori Palestinesi e la costruzione di media alternativi
in Israele, ma anche l'occupazione di case, l'animalismo, la cultura
punk o l'attivismo femminista radicale rappresentano per loro una
possibile strada per formare comunità controculturali capaci di
comprendere determinati principi e di escluderne altri, come il
nazionalismo, il militarismo e il maschilismo, la prospettiva
colonialista e il razzismo, lo stesso concetto di stato ebraico e, come
sottolineano Jonathan e Liad, di ogni altro stato.
ricke
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