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Da "Umanità Nova" n. 41 del 14 dicembre 2003

Repressione: diretta, indiretta o preventiva?
Il terrorismo della democrazia


La repressione è "l'impedimento, per mezzo della forza, di ciò che tende a sconvolgere specialmente un assetto politico o sociale": questa è la definizione del vocabolario. Questa è la pratica di ogni governo - quindi di ogni apparato statale - nei confronti di quanti si oppongono concretamente, per necessità o per idealità, al suo operare. Ecco quindi l'uso della polizia, dei carabinieri, delle altre forze militari e paramilitari, per mettere a tacere chi si impegna a trovare una soluzione alla questione sociale, che è sempre soluzione di eguaglianza e di libertà.

Sarebbe illusorio pensare che la repressione si sconfigge delimitando i confini della lotta allo scontro con le forze repressive dello Stato. La repressione si sconfigge prosciugando l'acqua stagnante della politica istituzionale, erodendo le basi della gerarchia sociale, dando fiato alla critica e al discredito nei confronti dei ceti dirigenti, facendo crescere la volontà autogestionaria di soluzione diretta dei propri problemi, sviluppando solidarietà nei confronti di chi lotta e resiste. La repressione in sostanza si sconfigge sconfiggendo lo Stato.
La repressione può essere diretta, come a Genova nel 2001, oppure indiretta, come per la strage di Piazza Fontana nel 1969, ove la strategia d'attacco si articolò su una bomba addossata ad un gruppo anarchico per costringere sulla difensiva il movimento in crescita. La scelta dei tempi e dei modi è evidentemente relazionata alla forza ed alla consistenza del movimento. La mattanza di Genova ha avuto come effetto il ripiegarsi del movimento su un versante paraistituzionale, la strage del 12 dicembre ha costretto operai e studenti ad un salto di qualità, alla radicalizzazione dello scontro nello smascheramento delle responsabilità. (E altre stragi di stato seguiranno: Brescia, l'Italicus, la stazione di Bologna,…fino a che il movimento non rifluirà e la repressione diretta si potrà dispiegare sui pochi che resisteranno).
La repressione è spesso anche preventiva per impedire, o almeno ostacolare, lo sviluppo di movimenti di contestazione. In tal caso si crea un pericolo, lo si enfatizza, lo si ingigantisce, per creare consenso e mobilitazione intorno a parole altisonanti (difesa dell'ordine repubblicano… dei valori democratici… dello stato nato dalla resistenza…) e annichilire gli embrioni di opposizione. Spesso (e volentieri) si creano addirittura o si infiltrano questi embrioni per spingerli ad azioni eclatanti in modo da sviluppare campagne d'ordine. La letteratura e l'esperienza sono ormai sufficientemente vaste a riguardo.

La fase attuale si caratterizza per un crescente attivismo militare funzionale alle politiche di contenimento e di superamento della crisi - vedi l'ultimo ed imponente stanziamento di fondi dell'amministrazione Bush al complesso militare industriale. La "guerra permanente" è diventata la parola d'ordine per ridefinire il proprio potere e rilanciare le proprie rapine. La banda delle Tre B. l'ha ribattezzata, in stile giacobino, guerra per la democrazia smascherando definitivamente la realtà e la vacuità di tale parola. Ma così facendo dimostrano, nel contempo, tutta la loro debolezza alla quale devono sopperire scatenando una gigantesca campagna mediatica (moderna forma della repressione preventiva) per estorcere consenso. La guerra per la democrazia, è, per sua natura, una guerra civile che ha come obiettivo non solo i paesi che aggredisce, ma la stessa società che la partorisce e la subisce. Per imporre la democrazia fuori, bisogna imporla dentro. E poiché la democrazia si configura oggi come forma di governo autoritario dei ceti dominanti e dei ceti medi ad essi legati, ove il consenso viene estorto e manipolato grazie ai sistemi di controllo mediatico e alla ragnatela delle mafie e delle clientele, l'imposizione avviene usando contemporaneamente le armi della repressione sia diretta sia preventiva. Diretta contro le minoranze militanti, preventiva contro le lotte dei lavoratori che non devono superare i limiti imposti dal budget statale.

Recenti sono le dichiarazioni del ministro di polizia, Pisanu, contro il pericolo anarchico. Veline di polizia riprese dalla stampa parlano di alcune centinaia di indagati dell'area anarchica (definita, non a caso, sempre meno insurrezionalista) di cui vengono esaltati i rapporti internazionali e insinuata la propensione terroristica. Contemporaneamente militanti comunisti vengono messi sotto accusa per la solidarietà espressa alla resistenza irachena e ampio risalto hanno le dichiarazioni sulle possibili convergenze tra integralismo islamista e brigatismo nostrano.

E non sono solo dichiarazioni. Perquisizioni si susseguono, montature vengono imbastite, compagni vengono incarcerati. E una valanga di articoli, per lo più infamanti, accompagnano queste azioni.
Dal canto loro gli 8500 autoferrotramvieri di Milano vengono criminalizzati, messi sotto inchiesta, minacciati per aver richiesto il rinnovo del contratto nelle forme classiche della lotta di classe: lo sciopero senza se e senza ma.

Pisanu assicura: la lotta al terrorismo si farà nel rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti.

Chi ci garantirà da Pisanu?

Piè veloce








 

 



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