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Da "Umanità Nova"
n. 1 del 18 gennaio 2004
Iraq
Il banchetto di natale
Anche
la copertina patinata di "Time", dedicata al personaggio dell'anno,
è stata occupata militarmente dai soldati Usa in uniforme
desertica, ma si tratta di un misero premio di consolazione: il
bilancio ufficiale delle perdite tra le truppe statunitensi sfiora
ormai quota 500 dall'inizio dell'attacco all'Iraq e l'anno nuovo si
è aperto con l'abbattimento di due elicotteri a Falluja.
Riprendendo una legge risalente ai tempi del Vietnam, il governo di
Washington ha quindi bloccato i congedi e i pensionamenti di oltre 40
mila militari, 16 mila dei quali appartenenti alla Guardia Nazionale.
È un altro sintomo inequivocabile della stasi in cui si trova la
trionfante guerra "preventiva" di Bush II che faceva già
intravedere il dilagare dell'aggressione globale Usa verso l'Iran e la
Siria. Non solo fa autocritica il segretario di Stato Colin Powell che
per giustificare la guerra aveva a suo tempo mostrato una provetta per
provare l'esistenza di armi non-convenzionali in mano a Saddam Hussein,
ma il fallimento strategico del governo Usa viene ormai riconosciuto
dall'interno della stessa amministrazione Bush, dopo che gli Usa hanno
dovuto cancellare o rinviare i loro ambiziosi piani di ricostruzione
economica e normalizzazione politica in Iraq. In particolare Washington
ha per il momento archiviato la privatizzazione di numerose imprese,
assieme alla soppressione del sistema di razionamento, alla rapida
creazione di un consistente esercito iracheno, allo scioglimento delle
milizie dei partiti e delle componenti etnico-religiose, nonché
alla redazione di una Costituzione che regolasse credibilmente un
prossimo passaggio di poteri ad un governo iracheno di fiducia.
Uno dei piani di intervento che più accarezzava l'esecutivo di
Washington era la conversione dell'economia socializzata irachena del
regime baatista in un sistema di libero mercato che avrebbe dovuto
servire da modello per l'intera regione. Il governatore Bremer ha
però dovuto fare i conti con la cruda realtà; infatti le
previste massicce privatizzazioni avrebbero lasciato senza lavoro
centinaia di migliaia di persone, determinando un ambiente ancora
più destabilizzato e ostile per gli occupanti e più
favorevole per la resistenza. Nel settore privato infatti sono stati
creati appena 20 mila posti di lavoro: una goccia nel mare di una
disoccupazione che tocca circa il 60% della popolazione irachena
attiva, compresi gli organici delle disciolte forze armate che contano
400 mila senza reddito. Infatti la ricostruzione dell'esercito non
è decollata e oltre la metà delle reclute ha abbandonato
la divisa sia per la bassa paga sia per paura di ritorsioni. Per
l'ordine pubblico gli occupanti possono contare soltanto su 63 mila
poliziotti riciclati, 12 mila guardie di frontiera, 48 mila addetti per
la sicurezza degli impianti e 10 mila collaborazionisti arruolati nel
corpo della difesa civile, pagati dieci volte un operaio giornaliero.
La paga è allettante, ma sono proprio loro e le loro caserme i
primi obiettivi della guerriglia; fuori da Baghdad sono costretti a
girare col passamontagna per non farsi riconoscere.
I vertici nordamericani erano intenzionati ad eliminare il sistema di
razionamento che fornisce al 90% della popolazione generi essenziali
quali farina, olio, riso e legumi. Questa fornitura, introdotta in
conseguenza dell'embargo internazionale, si rivela invece ancora
indispensabile e le autorità occupanti si sono rese conto dei
problemi logistici che comporterebbe l'assegnazione mensile di 15
dollari a persona in alternativa alle misure di razionamento.
Così la liberalizzazione economica si è andata arenando,
anche se il governo Usa ha già stanziato 79.245 dollari per la
ricostruzione della Borsa.
Sul piano politico l'impasse è totale, dopo che i partiti curdi
hanno delegittimato l'accordo del 15 novembre sul passaggio dei poteri
attraverso la formazione di una assemblea nazionale provvisoria; essi
rivendicano la sovranità per il Kurdistan, ma tale aspirazione
allarma pericolosamente lo stato turco.
Nonostante le azioni di guerriglia e i continui attentati, le forze
d'occupazione si vantano di aver conseguito qualche risultato nella
ricostruzione delle infrastrutture essenziali quali la fornitura di
energia elettrica, il rifornimento idrico, il sistema fognario e
l'istruzione; ma il quadro complessivo rimane uno scenario di guerra
ostico alla penetrazione liberista e agli investimenti multinazionali.
Alcune zone del paese e interi quartieri della stessa Baghdad vivono
ancora in condizioni terribili, senza acqua e senza luce. Intanto
continua, nell'indifferenza mondiale, la tragedia delle vittime civili
di mine e ordigni inesplosi: secondo dati dell'Unicef soltanto nella
provincia di Kirkuk ogni giorno muoiono in questo modo dai 3 ai 4
bambini, ma certo non fanno notizia come i soldati occidentali caduti
sotto i colpi della guerriglia.
Il 50% della popolazione non dispone di acqua potabile; la rete
ferroviaria è inagibile per i continui sabotaggi e l'aeroporto
di Baghdad rimane ad alto rischio; il rifornimento alle pompe di
carburante richiede giornate di attesa: questa è la vita
quotidiana.
Il banchetto dello sfruttamento petrolifero e la torta dei contratti
per la ricostruzione saranno riservati ai "vincitori", mentre agli
altri andranno gli avanzi. La prima fetta degli appalti è di
18,6 miliardi di dollari entro il 3 febbraio, ma nei prossimi cinque
anni l'investimento dovrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari.
Alla fiera sulla ricostruzione del paese che si terrà
prudentemente in Kuwait nel mese di gennaio, ci saranno anche un
centinaio di aziende italiane, sia piccole che medie, interessate ad
accaparrarsi i primi affari.
D'altra parte lo scorso 20 novembre il ministro dell'Interno Giuseppe
Pisanu ebbe candidamente a dichiarare alla stampa "sono in pericolo gli
interessi italiani all'estero" e Berlusconi nell'approvare tale logica
spartitoria ci ha ricordato Mussolini che auspicava qualche migliaio di
morti italiani per sedersi al tavolo della pace, ma il tacchino di
Natale emblematicamente servito per Natale dal presidente degli Stati
Uniti alle sue truppe appare sempre più indigesto.
U. F.
PS. I dati riportati sono tratti da fonti giornalistiche italiane,
americane e spagnole, di diverso orientamento; nonostante i raffronti
effettuati, la loro attendibilità è necessariamente da
ritenersi relativa.
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