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Da "Umanità Nova" n. 2 del 25 gennaio 2004

La patria degli assassini
Nazionalismo tricolore: il "volto umano" del neocolonialismo


Le ultime settimane hanno visto un rafforzamento pronunciato del "ritorno della patria" in Italia. Il lutto nazionale dopo la morte dei carabinieri presenti come truppe occupanti in Iraq nell'attentato di Nassirya, le iniziative repressive immediatamente prese contro chi, come gli universitari torinesi o gli studenti medi di Latina, hanno osato protestare contro la presenza di truppe italiane in Iraq, gli avvisi di garanzia ai compagni di Torino che avevano "osato" ammainare la bandiera tricolore da uno dei tanti palazzi storici della città sabauda, sono soltanto la punta di un iceberg la cui base è stata costruita in questi anni con tenacia da parte di rappresentanti politici del centrodestra come del centrosinistra, storici ed editorialisti della grande stampa. Il ritornello intonato con ossessività è di una chiarezza assoluta: gli italiani devono riprendere ad essere orgogliosi del "proprio" paese, l'Italia deve essere conscia del proprio ruolo nel mondo e deve portarlo avanti con forza e decisione. A ripetercelo con continuità sono stati i capi dei governi succedutesi negli ultimi venti anni (a partire da un certo Bettino Craxi), storici come De Felice che, nel promuovere una revisione giustificatoria della storia del fascismo, rilanciavano una visione positiva dell'epopea coloniale ed imperialista del nostro paese, editorialisti come Galli Della Loggia piuttosto che come Bettiza, preoccupati allo stesso tempo di salvaguardare la posizione internazionale italiana di vassallaggio assoluto nei confronti dell'alleato americano e di rilanciare un ruolo internazionale aggressivo dell'Italia. Negli ultimi anni, però, l'Italia ha trovato un testimonial di eccezione per la campagna "ritorno della Patria": il presidente Ciampi si è, infatti, imposto come il primo portavoce della posizione che vuole rilanciare il sentimento nazionale nel nostro paese.

In effetti il presidente banchiere possiede tutte le caratteristiche per giocare un ruolo di questo genere: ha un passato di antifascista di tipo nazionale, non è mai stato coinvolto a sinistra (militava nell'ala destra del Partito d'Azione), ma nemmeno a destra con iniziative "d'ordine" come quelle dei partigiani bianchi alla Edgardo Sogno, ha lavorato tutta la vita in Bankitalia, ricoprendo pure il ruolo di Governatore Generale, prima di presiedere l'ultimo governo tecnico degli anni Novanta e di fare il ministro del Tesoro sotto i governi Prodi e D'Alema; in altre parole, un uomo dello stato, non colluso con i partiti, un esponente della borghesia di stato "seria" e affidabile.

Così, buttando sul piatto tutta la propria credibilità, Ciampi ha impostato dal momento della sua elezione una campagna politica con un obiettivo ben preciso. In primo luogo, rilanciare l'onore dell'esercito italiano, cancellando le infamie dell'uso dei gas nervini durante la campagna d'Etiopia del 1935, la costruzione di campi di concentramento in Russia e Jugoslavia e il vergognoso sbragamento degli Alti Comandi l'otto settembre del 1943 che consegnò migliaia di soldati alle truppe di occupazione nazista, affermando l'identità dell'istituzione esercito con quei reparti che resistettero ai comandi tedeschi nell'isola di Cefalonia in Grecia e con quelli che, senza e contro i loro stessi comandi, all'indomani dell'otto settembre raggiunsero le montagne per dare vita a una delle tante Resistenze che si opposero in questo paese all'occupazione tedesca e alla continuità del regime fascista. In secondo luogo celebrando in ogni occasione la sacralità della bandiera nazionale elevando un semplice pezzo di stoffa a simbolo trasfigurato dell'identità di ogni cittadino. In terzo luogo promuovendo ovunque la partecipazione italiana a missioni di occupazione all'estero assicurando il colto e l'inclita sulla natura equa ma severa, severa ma giusta, del carattere nazionale delle forze armate italiane che, in quanto tali non avrebbero potuto non essere le naturali candidate alla gestione di ogni paese del Sud del mondo devastato da guerre ed occupazioni volute e realizzate dalle potenze occidentali. In altre parole una modernizzazione del vecchio "italiani, brava gente", dove questo orrendo luogo comune non si riferisce più a una pretesa natura bonacciona e disorganizzata del popolo italico, che non sarebbe capace di fare male ad una mosca, ma bensì alla capacità di incarnare una sorta di "volto umano" delle imprese neocoloniali contemporanee.
Non è casuale che a rappresentare in pubblico il nuovo nazionalismo italiano non sia un leader politico della Destra. Il nazionalismo in Italia è stato a lungo una parolaccia non solo per gli internazionalisti e per il movimento operaio, ma per una vasta parte della popolazione che aveva provato sulla propria pelle quali ne fossero le conseguenze in termini di lutti, miseria e distruzioni. In qualche modo il trinomio fascismo-nazionalismo-rovina si era impresso ad almeno due generazioni di italiani come una realtà evidente. Oggi, sia pure a quasi sessanta anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un nazionalismo di tipo imperiale, basato su rivendicazioni di superiorità nazionale e capacità bellica non è ripresentabile in Italia, sia per il ruolo oggettivamente subordinato che il nostro paese riveste nell'ambito delle relazioni internazionali (il ritorno dell'Impero sui colli fatali suonerebbe ridicolo anche a un frequentatore di una sezione di Forza Nuova), ma anche per questa eredità che l'Italia condivide con Germania e Giappone, non a caso altri due paesi che hanno dovuto reinventare una forma "umanitaria" di nazionalismo per poter reimpiantare in patria il culto della nazione.

Nel caso italiano il riferimento ideale è diventato il nazionalismo democratico risorgimentale, quello ottocentesco in fondo ben rappresentato da Ciampi i cui modi da vecchio signore ricordano i ritratti degli "eroi del Risorgimento" presenti in ogni sussidiario scolastico. Questo tipo di nazionalismo ha una base nel movimento democratico unitario dell'Ottocento italiano e presenta alcune caratteristiche "progressive" e ha, agli occhi degli attenti pianificatori del "ritorno della patria" un vantaggio indiscutibile: si trattava di un movimento di tipo irredentista, i cui scopi presunti erano quelli di liberare una popolazione e non di sottometterne un'altra. Per questo motivo è meno attaccabile dalla polemica internazionalista ed è presentabile come una forma di nazionalismo "civile" contrapposto a quello barbaro che si sarebbe affermato solamente durante la dittatura fascista. Che poi l'epopea coloniale sia ben precedente al fascismo e che l'unificazione sabauda del paese sia stata in realtà un'azione di annessione contrastata da quote significative della popolazione del sud del paese questo non viene detto, ma si sa i particolari non sono il terreno preferito degli storici di regime né in Italia né nel resto del mondo.

Potrebbe sembrare singolare la riscoperta del nazionalismo in questi anni che, teoricamente, vedono la relativizzazione delle identità nazionali dei paesi europei all'interno di agglomerati più vasti come quello dell'Unione Europea. In realtà il processo di rinazionalizzazione delle masse che stiamo vivendo è assolutamente funzionale alla costituzione di uno spazio come quello europeo e all'approfondimento dei legami imposti dall'appartenenza a un organismo politico-militare quale la NATO.

Nella pratica una realtà come l'unione Europea è ben lontana dal rappresentare lo spazio del superamento dei differenti interessi nazionali dei paesi europei e si configura come un luogo di conflitto tra questi ultimi, la cui cifra è data non dalla reciproca collaborazione ma dalla continua conflittualità interna e dalla costituzione di alleanza a geometria variabile tra i singoli paesi su specifiche battaglie. In altre parole lo spazio economico e politico europeo si configura come una necessità per i paesi che lo compongono per evitare che il loro peso specifico tenda a sparire nel confronto con la superpotenza americana e con le potenze emergenti del sud del mondo ma non costituisce il luogo di creazione di un unico interesse europeo, bensì quello della mediazione tra gli interessi dei singoli associati. In un quadro di questo genere la ripresa del tema del nazionalismo è particolarmente utile alle classi dominanti dei vari paesi europei per combattere le loro battaglie all'interno dell'Unione Europea, mobilitando a loro favore opinioni pubbliche altrimenti lontane dall'appassionarsi alle contese tra un paese e l'altro sulla sede dell'Autorità alimentare dell'UE piuttosto che sulle modalità di voto ponderato da attuare all'interno delle Conferenze Intergovernative. In questo campo il nazionalismo riscoperto serve ai dominanti come valore aggiunto da utilizzare in sede di trattative tra stati, come forza di mobilitazione sociale da gettare sul piatto in caso di tensioni interne all'aggregato di nazioni europee.

Nel caso della NATO il discorso riguarda la diversa valenza che l'alleanza ha iniziato ad avere negli ultimi dieci-quindici anni, dopo la Caduta del Muro, e che è stato accelerato prima dalla guerra del Kosovo e poi da quella dell'Afganistan. La NATO ha garantito ai paesi europei usciti sconfitti dalla Seconda Guerra Mondiale e a quelli che pur vincenti non avevano più la dimensione minima per competere nello scenario internazionale creato dalla fine del conflitto, un ombrello difensivo all'interno del quale lo scambio si poneva tra la rinuncia ad un ruolo autonomo sul piano internazionale con la consegna della propria politica estera alle Amministrazioni USA e la garanzia di poter sviluppare la propria economia e i propri commerci sotto la protezione militare si questi ultimi. La fine della contrapposizione Est-Ovest ha fatto cadere questa logica di scambio, accentuando la subalternità dei paesi europei nei confronti dell'alleato USA proprio perché si erano create le condizioni perché questa venisse superata. La richiesta fatta dall'alleato "più uguale degli altri" ai propri alleati-vassalli è quindi mutata, accentuando l'aspetto di coinvolgimento militare di questi ultimi nei compiti di gestione del dominio mondiale che le classi dominanti americane si sono date. In questo quadro è diventato necessario per un paese come l'Italia superare il ritardo tecnologico e organizzativo accumulato sul piano militare. A questo programma si sono applicati con successo gli Alti Comandi del nostro paese nell'ultimo quindicennio trasformando un esercito di leva, diffuso sul territorio e a prevalenza di materiale umano in un esercito professionale composto di reparti d'élite che ormai coincidono con il corpo stesso delle Forze Armate, tecnologicamente avanzati e militarmente preparati. Questa trasformazione è stata relativamente rapida ma non indolore e neanche gratuita. Le spese affrontate per metterla in atto forti e ancora limitate per quello che viene calcolato come il fabbisogno futuro di un esercito preparato per le guerre del terzo millennio. Questo ha voluto dire avviare e rendere ogni anno più forte il trasferimento di risorse dalle necessità della società e in particolare delle classi subalterne verso la struttura militare. Allo stesso tempo la macchina bellica italiana ha iniziato a essere coinvolta in situazioni di guerra dove, nonostante il gap tecnologico e di preparazione, i militari italiani uccidono ma possono anche essere uccisi.

Per ottenere il massimo consenso a questa operazione di ripresa dello strumento militare le classi dominanti hanno dovuto ricostruire un ambiente favorevole all'affermazione nazionale dell'Italia, all'importanza del ruolo del paese nel mondo e alla positività del suo esercito e delle missioni all'estero che questo compie. Questo è avvenuto tra l'altro in presenza di chiare e precise testimonianze sulle attitudini non certo pacifiche dei militari italiani, come dimostrato dalla vicende delle torture e degli stupri commessi in Somalia. Quindi la campagna sulla patria ha dovuto essere particolarmente convincente anche per far dimenticare in fretta all'opinione pubblica i comportamenti non certo limpidi attuati di militari italiani in funzione di truppe di occupazione.

Il problema che questa situazione pone di fronte agli internazionalisti e ai libertari è che questa campagna ottiene un discreto successo tra le giovani generazioni, lontane dagli orrori della guerra e scarsamente poste in pericolo nella loro sopravvivenza dalle avventure neocoloniali dell'esercito italiano. La loro adesione è oggi anche l'adesione a una visione del mondo dove il tallone di ferro puntato sulla testa degli abitanti del sud del mondo può servire a salvaguardare il livello di vita in occidente. In questo senso i dominanti hanno trovato lo spazio ideologico nel quale rispondere "in positivo" all'insicurezza sociale generata dalla precarietà diffusa e dalla drastica riduzione della qualità di vita delle classi subalterne.

Controbattere il nazionalismo contemporaneo vuole quindi dire combattere una battaglia a tutto tondo dove si tratta di unire l'aspetto di solidarietà internazionalista tra dominati con la critica del nazionalismo come ideologia di compensazione dell'insicurezza provocata dalla trasformazione capitalistica e con la critica economica all'utilizzo delle risorse collettive per mantenere macchine da guerra utili esclusivamente al prolungamento del dominio delle classi dominanti.

Giacomo Catrame












 

 



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