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Da "Umanità Nova"
n. 3 del 1 febbraio 2004
Afganistan: la guerra continua
Ritorno a Kandahar
Io sono in guerra sempre, rosso di sangue sempre…
(Canto popolare afgano)
Sono passati quasi dieci anni, dall'inverno del '94 quando gli
studenti-guerrieri talebani fecero la loro prima apparizione
conquistando Kandahar, per poi dilagare verso il nord, impadronendosi
di Kabul nel settembre di due anni dopo.
E la guerra sommessa che continua ad insanguinare l'Afganistan passa
ancora da Kandahar, la roccaforte dei pashtun, l'etnia maggioritaria
che ha dominato l'Afganistan per tre secoli.
Il 18 gennaio a Sawghatq, villaggio a poca distanza da Kandahar, un
bombardamento Usa ha causato un'altra strage: 11 civili morti tra cui 4
bambini; neanche un mese fa altri 15 bambini erano stati massacrati in
un due diversi raid delle forze armate Usa impegnate in operazioni
"antiguerriglia" nell'Afganistan sudorientale.
Ma la popolazione deve "convivere" anche con il rischio quotidiano di
rimanere vittima degli attentati contro le forze governative e quelle
d'occupazione; a Kandahar lo scorso 6 gennaio un'autobomba contro una
struttura militare Usa ha ucciso una ventina di civili, tra cui tanti
bambini.
A noi arrivano soltanto frammenti tragici di un conflitto, complesso quanto tragico, che non ha mai smesso di bruciare.
Negli ultimi sei mesi si è registrata quella che la stampa
internazionale ha definito una "offensiva neotalebana"; sicuramente
tale definizione appare grossolana, ma di fatto circa 500 tra civili e
militari sono morti in uno stillicidio di agguati ed attentati; tra i
più gravi e recenti ricordiamo quello dei primi di gennaio
quando a Kabul un mujaheddin suicida ha causato la morte di cinque
agenti governativi, compreso il capo della sicurezza del ministro della
difesa, e la mina esplosa nella provincia di Oruzgan il 21 gennaio al
passaggio di un veicolo uccidendo tre civili e due militari.
Secondo l'Onu, 16 delle 32 province afgane, specialmente del Sud, sono da ritenersi territori off limits.
In conseguenza di ciò l'ambizioso programma di
ricostruzione delle agenzie internazionali non è neppure
decollato, dato che nessuno poteva garantire l'incolumità dei
vari team. Come esempio, basti citare il caso della risistemazione
della strada Kabul-Kandahar, dove 800 guardie armate proteggono a
stento 1.750 operai e tecnici impegnati nei lavori.
Infatti se a Kabul i circa 5 mila militari del contingente ISAF-Nato
vigilano su una parvenza di normalità permettendo il boom
immobiliare finanziato dal narcotraffico (la produzione e il commercio
di oppio rappresentano metà del PIL nazionale), nel resto del
paese imperversa il secolare potere clanico dei signori della guerra.
Il loro potere non è mai stato così forte: hanno
incassato dollari in quantità industriale provenienti dalle
casse federali statunitensi, sono armatissimi e dotati di forte
milizie, impongono onerosi pedaggi a tutti i convogli che transitano
nei loro territori, lucrano con droga e contrabbando di armi,
intrattengono rapporti tutt'altro che segreti coi servizi degli Stati
confinanti, ricattano continuamente il governo.
Sul piano politico, ai primi di gennaio la Loya Jirga - la
grande assemblea intertribale - ha faticosamente approvato a
maggioranza il testo di quella che dovrebbe essere la nuova
Costituzione nazionale, ma mai come in questo caso si tratta di un
pezzo di carta. Il presidente provvisorio Hamid Karzai di fronte alle
insidiose trame portate avanti dai suoi ex-alleati del Nord (il
ministro della difesa Mohammed Fahim, il capoclan Herat Ismail Khan, il
generale uzbeko Dostum, l'ex presidente Rabbani) da tempo sta tentando
- forte della sua appartenenza pashtun e del beneplacito di Washington
- di tessere un'intesa proprio con i talebani.
Sembra un paradosso: il governo Usa che, dopo aver fatto una
guerra motivata dal voler mettere fine al famigerato regime dei
talebani guidati da del Mullah Omar, adesso è costretto ad
avallare il ritorno dei medesimi quale elemento di stabilità;
eppure chi conosce, anche solo superficialmente la storia afgana, sa
che questo non è altro che un ritorno alle scelte di dieci anni
fa, quando gli Usa sorrisero all'idea che gli studenti coranici col
kalashnikov al collo mettessero fine agli scontri tra fazioni tribali
iniziati con la fine dell'occupazione russa, rendendo così
possibile la realizzazione del progettato gasdotto della Unocal.
Secondo alcuni osservatori, siamo alla vigilia di una prova di forza
militare da parte dei talebani che, approfittando dell'attuale
situazione, sarebbero intenzionati a riprendere il pieno controllo
delle aeree pashtun, a partire proprio da Kandahar, per poi tornare a
Kabul: i segnali in tal senso non mancano e la primavera si avvicina.
Uncle Fester
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