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Da "Umanità Nova" n. 3 del 1 febbraio 2004

Iraq: il conto salato dell'occupazione USA
Terrore di Stato e terrore fondamentalista


Come era largamente prevedibile, l'arresto del dittatore Saddam Hussein non sposta di una virgola, almeno a medio termine, l'evolversi della situazione bellica in Iraq. La guerriglia locale, che considera le truppe occidentali occupanti, continua a opporsi nella maniera epocale, ossia con il controterrore degli assalti kamikaze, pronti a immolarsi pur di infliggere perdite al nemico. Tattica suicida eticamente non sostenibile e politicamente non condivisibile perché brucia ogni potenziale di politica partecipata. Non ci si stancherà mai di notare fino alla ripetizione come sia simmetrica, e quindi conservatrice, la pratica del controterrorismo a fronte del terrorismo di stato. Anche se il fanatismo non sempre è figlio della miseria in cui versano da decenni le popolazioni di quell'area martoriata, l'ottundimento delle coscienze da parte dei fondamentalisti si alimenta invece della disperazione reale che ormai da tempo immemore (dal protezionismo coloniale sino alle odierne dittature sostenute dalle potenze egemoni) oscura l'orizzonte esistenziale di giovani e anziani alla ricerca di una vita degna di essere vissuta. Ma altrettanto indubbiamente non sarà una guerriglia condotta da leader religiosi, disposti a utilizzare vittime predestinate e attentamente coltivate, a promettere una emancipazione reale a uomini e donne in ogni latitudine.

Saddam in manette potrà risultare in maniera interessante addirittura destabilizzante se arriverà vivo al processo che intenteranno contro di lui i suoi nemici interni: avrà da raccontare della stretta di mano del 1983 con Rumsfeld allora suo amico, avrà da raccontare parecchio sulle forniture di gas chimici che in una notte del 1988 inghiottì 5mila curdi ad Halabja senza sollevare alcun embargo contro di lui e i suoi protettori a stelle e strisce; avrà da raccontare chi lo armò contro Khomeyni nel 1980; avrà da raccontare i favori ai turchi quando nell'Operazione Anfal divorò 20mila curdi segnando l'ennesimo genocidio ai danni di quelle popolazioni, che oggi probabilmente l'hanno smascherato e venduto agli americani per umiliarlo un minimo. In altri termini, e al di là della minaccia di usare quella pena di morte che lui stesso ha disinvoltamente usato contro la sua popolazione (e in qualche caso contro il proprio clan e parentado vario, pur di mantenersi saldo al potere), l'ipotesi di un pubblico processo per fargli espiare le sue responsabilità ed emendare così la popolazione irachena di lui vittima, ma in qualche caso complice perché garantita dal sistema, diventerà un affare bollente nelle mani degli alleati: l'Onu vorrebbe un processo equo e garantista, come Saddam non ha mai concesso a nessuno, per permettere alla burocrazia internazionale di riaffermare il suo status sovranazionale, mentre gli iracheni leader in pectore vorrebbero processarlo a casa loro, secondo le consuetudini locale, pur essendo privi di una qualsiasi legittimazione, ed essendo per lo più poco imparziali per via delle ferite inferte loro dal carnefice di Baghdad, e poco indipendenti essendo messi al potere dalle armi americane. Come sempre, il tribunale nella forma che ne uscirà segnerà in anticipo un conflitto risolto in un dato modo, ricoprendo successivamente lo scontro tra forze con una retorica giudiziaria che cela il formalismo giuridico dietro la dura sostanza dei vincitori di turno che processano lo sconfitto di turno.

Cosa ci stanno a fare in Iraq gli alleati europei di Bush è ancora un mistero, nonostante la lista delle imprese alleate escluse dal banchetto della ricostruzione.
Che nessuno creda a quella lista, tranne il suo estensore Paul Wolfowitz, non è un mistero, a partire dalla nomina di un rivale interno alla cerchia dei neocons, quel James Baker, già segretario al tesoro e agli esteri sotto Reagan e Bush padre, incaricato dalla Casa bianca di rinegoziare il debito estero iracheno (oltre 300 miliardi di dollari tra debiti della prima guerra del golfo e debiti per prestiti mai rimborsati su crediti finanziari e crediti di acquisto di beni, anche militari; a circa 35mln di dollari ammonta la quota italiana) proprio manovrando sull'ingresso di imprese di quei paesi che ridimensioneranno o cancelleranno i loro crediti ai nuovi governanti, ossia alle autorità filoamericane che resteranno al potere sostenute dalle armi e dalla finanza a stelle e strisce. Ciò riaffermerebbe una pratica messa in voga dagli Usa nel passato, quella di non riconoscere i "debiti odiosi" (così vengono definiti) quando, in seguito ad una conquista, se li trovano sul proprio fardello ereditandolo dal regime precedente (il caso cubano dopo la guerra ispano-americana a metà XIX secolo); peccato che tale pregevole iniziativa di cancellare il "debito odioso" non venga adoperato a favore dei paesi del terzo mondo, da esso seppelliti, che se li vedono rinfacciare e negoziare col contagocce nonostante siano stati regimi corrotti e filoccidentali a crearli aprendo voragini nei conti pubblici, spesso monitorati da istituzioni finanziarie internazionali quali il Fmi, la World Bank, il Banco latinoamericano o le agenzie di rating tipo Moody's, Standard & Poors e altre attualmente agli onori della cronaca nera (Arthur Andersen, Deloitte, Northon) per la loro stretta e famelica complicità comprata a caro prezzo nei fallimenti di imprese liberali quali Enron, Mci, Cirio e Parmalat.

I documenti Usa di inizio 2003 predisponevano una road map della conquista irachena e dei passi successivi che, ad una attenta analisi, rivelano più le strategie di medio-lungo periodo che non una tattica del presente nel gestire l'occupazione militare e politica. Infatti la costruzione di un governo provvisorio, la formulazione di una Costituzione che vada bene per tutti, l'adozione del modello afgano di gestione per la ricostruzione, il coinvolgimento delle potenze alleate e degli organismi internazionali ostili all'intervento armato, l'annullamento del debito contratto dal governo iracheno: sono tutti passaggi segnalati in anticipo rispetto ai fatti sul campo, e sono leggibili sia in chiave strategica di lungo respiro - controllare la dipendenza occidentale e orientale dal petrolio, più di quanto non dipendano gli Usa, in vista di un accerchiamento politico-energetico del baricentro asiatico prossimo venturo (l'impresa statale cinese CNPC è tra le più attive, insieme a quella malese, nel rilevare imprese occidentali in disimpegno dalla zona africana del Sudan, ad esempio, a testimoniare ormai l'efficienza rispetto alle regole di mercato e tecnologiche di quel braccio operativo della sovranità cinese); sia in chiave strategica di medio-respiro - prevenire un contraccolpo antisaudita a Riyadh, garantendosi il secondo bacino energetico del pianeta.

A breve termine, tuttavia, il conto salato delle truppe d'occupazione è messo in cantiere sin da subito, pur dovendo dissimularlo agli occhi dell'opinione pubblica.

Difficile nascondere gli attentati, difficile prevenirli, difficile rimediare alla proliferazione di gruppi e gruppuscoli di resistenza armata, difficile controllare le frontiere in un paese straniero impedendo il flusso di terroristi. Certo, sul piano mediatico, la pazienza di una opinione pubblica locale, alla vigilia del voto presidenziale a fine 2004, può sempre essere addomesticata innalzando i livello di allarme e di panico pilotato, come dimostrano i non-eventi natalizi, di cui non occorre dimostrare alcunché in quanto funzionano proprio tanto in presenza quanto e soprattutto in assenza di tali eventi.

Gli Usa utilizzano la guerra al controterrore in Iraq - ma già si potrebbe preannunciare la prossima tappa siriana… - per rimescolare le carte anche in Europa, come dimostra la spaccatura a Bruxelles sulla nuova costituzione europea a 25, in cui Spagna e Polonia si sono rivelate la quinta colonna americana, mentre Chirac e Schroeder sono improvvisamente diventati i paladini europei pacifisti e democratici a buon mercato, in un duello geostrategico in cui le popolazioni del nord e del sud contano poco o nulla per le élite al potere. Il braccio di ferro tra Usa e Ue a livello internazionale, su piani diversi quali quello commerciale, finanziario, diplomatico, continua pur essendo entrambi i contendenti amici da lunga data e probabilmente a lungo termine convergenti sul dominio mondiale. Tuttavia al presente non deve sorprendere un prolungamento del conflitto sotterraneo che vede nei fatti una Europa spaccata e l'Italia oggi schierata dal governo in carica sul versante oltreatlantico come mai nella nostra storia repubblicana, nemmeno negli anni di sovranità limitata all'epoca delle stragi di stato e della destabilizzazione amica.

Che l'Italia torni quindi ad essere campo di battaglia tra i due contendenti, a prescindere dalla minaccia del comunismo ormai inesistente (ma è mai esistito un pericolo rosso in Italia dopo Yalta e dopo la svolta salernitana di Togliatti??), riapre uno scenario inquietante che introietta un nemico esterno ricucendolo con abiti quasi nuovi in nemici interni da inventare ad uso dell'opinione pubblica saziata dai media di regime.

Salvo Vaccaro













 

 



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