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Da "Umanità Nova"
n. 4 dell'8 febbraio 2004
Ribellarsi è necessario
Preti, padroni e fascisti si spartiscono la torta
Che sia una situazione tragica è sotto gli occhi di tutti. Che sia pure seria, è da dimostrare.
Governata da un premier ispirato ora dall'etereo spirito santo, ora dal
carnale Baget Bozzo, e che si compiace di riprodurre gli aspetti
più squallidi e caricaturali dell’italiano da cartolina (la
menzogna, la furbizia, il disprezzo delle regole, il sotterfugio, il
vittimismo, la servile arroganza del perfetto maggiordomo), retta da
una maggioranza che è riuscita a far rimpiangere, in soli tre
anni, lo squallore e lo sfascio di mezzo secolo di regime
democristiano, la nostra bella repubblica non sta certo vivendo uno dei
periodi più esaltanti della sua giovane storia. Vediamo infatti
ripresentarsi prepotentemente i frutti di quello spirito reazionario e
oppressivo che credevamo spazzato via dal vento dell’aprile del 1945:
l’invadenza clericale che metterebbe il crocefisso financo in bagno, il
razzismo che da chiacchiera da bar si fa legge dello stato, lo spirito
di patria che ci vorrebbe, sfruttati e sfruttatori, tutti fratelli, il
nazionalismo del tricolore piantato sulla torretta di un carro armato
nei deserti asiatici, il fascismo rivalutato come fecondo momento di
identità popolare, un capitalismo brado e di rapina che fa
strame dei pochi puntelli sopravvissuti alla furia degli anni in cui
trionfavano nani e ballerine. Autoritarismo, repressione, libero
mercato: quando preti, padroni e fascisti si accordano per spartirsi la
torta, c’è poco da stare allegri! Ci manca solo che torni il
sabato fascista e siamo a posto.
Nel campo mediatico siamo a un passo dal vedere trasformate in
fantasie da educande le più inquietanti previsioni
dell’orwelliano 1984. Cannibalizzato definitivamente l’intero sistema
radiotelevisivo con la legge Gasparri, l’unica informazione che
raggiunge, e condiziona, il popolo della tv, stordito dai telegiornali
in fotocopia, è la stucchevole e rassicurante esegesi delle
veline sfornate a getto continuo dai vari ministeri, e per veline
intendiamo quelle vere, non quelle sculettanti sul muso dei due
giullari di corte al soldo del padrone di Mediaset. "Tutto va bene e
viviamo nel migliore dei mondi possibili", è un ritornello che
ci pare di aver già sentito.
Nel campo istituzionale è in atto una guerra per bande
che vede contrapposti, e spesso con ottime ragioni, i massimi poteri
dello stato. Il capo del governo che attacca la magistratura, la
magistratura che ridiscute i poteri del parlamento, la Banca d’Italia
che scende alla rissa con il Tesoro, la Consob che se la prende con il
Garante, la Corte dei Conti che fa le scarpe alla finanziaria, le
commissioni parlamentari che si riducono a sputacchiere, la Corte
costituzionale che bastona il governo, il governo che bastona la Corte
costituzionale, e per finire il Presidente della repubblica che viene
amabilmente preso a pesci in faccia dal Calderoli di turno. E la
litigiosità dei padroni va a contagiare anche la servitù:
se i comandanti delle tre armi potessero esprimere con parole la stima
che si portano reciprocamente, troverebbero un momento di concordia
solo per spargere, tutti insieme, letame sui carabinieri. Se non
fossimo sicuri che il cinismo del potere potrebbe razionalizzare anche
questa conflittualità, e quindi restringere i residuali spazi di
libertà, potremmo rallegrarcene.
In campo economico, se possibile, le cose vanno ancora peggio.
Il crac Parmalat, preceduto da quello Cirio e seguito da quello
Finmatica, consente di trarre due conclusioni certe: la prima che il
capitale è ladro, porco e fetente e la seconda che solo i
lavoratori sono i garanti della produzione dei beni di prima
necessità. Tutte le istituzioni, il che non ci sorprende, vi
sono coinvolte e da questo osceno rimpallo di responsabilità fra
governo, bankitalia, banche d’affari, padroni e speculatori vari,
emerge la complicità di un sistema che ha sostituito alle regole
certe, ma ormai antidiluviane, del capitalismo di impresa, quelle
spregiudicate del capitalismo speculatore e finanziario. Per le quali
tutto è permesso e tutto è possibile. Del resto l’intero
ceto politico, da Prodi a D’Alema a Berlusconi, per anni si è
ingegnato a far sì che il muro di Berlino, crollando,
trascinasse con sé anche quel minimo di regole "etiche" che il
capitalismo doveva sbandierare per giustificare la propria
"superiorità morale" sul comunismo. E ora che cominciano a
saltare fuori i nomi dei beneficiari dei fondi distratti da Tanzi, non
ci stupisce di ritrovare, in compagnia di Comunione e Liberazione,
l’affascinante signora Zincone Dini (toh, anche qua!) e quel galantuomo
di Cossiga, il cui nome compare regolarmente ogni volta si rimesti nel
torbido. Resta fuori Formigoni stavolta, ma lui i soldi, come pare,
già li prendeva dal boia di Baghdad.
A fronte di tutto questo le condizioni di vita e di lavoro
delle classi subalterne subiscono un continuo peggioramento. Con i suoi
difensori tradizionali e "istituzionali" occupati a sbranarsi sul
computo dei deputati da spartirsi nella prossima tornata elettorale o a
saltellare in girotondo come tanti piccoli idioti, quello che rimane
della mitica "classe" assiste alla incessante distruzione di posti di
lavoro (la prossima chiusura delle acciaierie di Terni è
l’ultimo esempio del "declino industriale del paese") e alla costante
erosione di salario e pensione, mangiati da una inflazione
sfacciatamente superiore a quella dichiarata con tanta sfacciataggine.
Precarietà nei conti di casa, dunque, precarietà nelle
garanzie sui posti di lavoro, precarietà nella tutela dei
diritti, precarietà nei servizi lautamente pagati con tasse e
contributi. Così non può durare!
E infatti, finalmente, due più due riprende a fare
quattro. Dopo anni di liberalismo trionfante e di lotta di classe
morta, durante i quali i conti non tornavano mai, riprende ora,
inevitabilmente, una fase di forte conflittualità che poggia le
proprie ragioni sulla crescente precarietà dell’esistente.
Ripresa delle lotte, dunque, e riacquistata consapevolezza di una
più avanzata coscienza sociale derivante dalla sedimentazione
delle esperienze di questi ultimi anni. Le lotte degli
autoferrotranvieri, con la rimessa al centro del ruolo trainante delle
cosiddette aristocrazie operaie e l’affannosa rincorsa dei sindacati
istituzionali timorosi di perdere il tram, sembrano ragionevolmente
essere i prodromi di una fase di attacco di lungo respiro.
In questa situazione gli anarchici, come sempre, vengono a
farsi interpreti delle esigenze di emancipazione che salgono dalla
società, per trasformarle in atti collettivi e costruttivi di
protesta e ribellione, tesi a sviluppare gradualmente la coscienza
libertaria nel cuore della società. Fino al momento della
rottura degli equilibri, quando sarà possibile il concretizzarsi
non solo di un mondo nuovo, ma di un mondo migliore.
Naturalmente, a fronte della forte ripresa dell’iniziativa libertaria
che ostinatamente cerca di trasformare la protesta proletaria in un
radicale e condiviso progetto di liberazione, lo Stato, non potendo
disconoscerne le ragioni, risponde con le armi che più gli sono
congeniali: la repressione, la mistificazione, la provocazione.
Rispolverando, così, le antiche strategie che vorrebbero mettere
la sordina alle istanze antagoniste per ridurre tutto al solito gioco
fra guardie e ladri, ben sapendo che in questo gioco, visto troppe
volte, il vincitore è sempre stato lui. Ma questo processo di
"normale" criminalizzazione del nostro movimento sta già
trovando le sue risposte tanto nella accentuazione dell’iniziativa di
massa dei libertari, quanto nella riproposizione di una strategia che
vuole coinvolgere sui propri contenuti, autogestionari e
antiautoritari, sempre più ampi settori sociali. Senza
scorciatoie giacobine e senza impazienze velleitarie.
Questa è la strada che stiamo percorrendo, perché questa è la nostra strada.
Massimo Ortalli
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