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Da "Umanità Nova" n. 4 dell'8 febbraio 2004

Regolamento di conti
Finanza e poteri del dopo Parmalat


La settimana appena trascorsa ha visto l'audizione parlamentare di Fazio in merito al crack Parmalat. L'intervento del Governatore era molto atteso perché rappresentava una lettura ufficiale degli ultimi avvenimenti da parte di una delle parti più esposte alle critiche e agli attacchi del governo e dell'opinione pubblica, nel pieno di uno scontro tra poteri contrapposti.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare mente locale sul ruolo istituzionale della Banca d'Italia e sui precedenti, recenti, che ne hanno messo in risalto debolezze ed errori. La Banca d'Italia gode storicamente di ampia autonomia operativa e di grande prestigio intellettuale, che la rendono un "potere forte" e le hanno consegnato un ruolo, talvolta immeritato, nella perpetuazione di un capitalismo debole ed asfittico come quello italiano. A fronte di un ceto politico tradizionalmente corrotto e corruttore, clientelare e spendaccione, la Banca d'Italia si è a lungo ritagliata un ruolo di fustigatore dei costumi, risanatore dei bilanci, stimolo agli impieghi produttivi e salvaguardia di equilibri economici. Quando il vecchio sistema politico della Prima Repubblica è stato travolto da tangentopoli, Bankit ha volentieri fornito molti dei suoi tecnici di più alto livello alla prima fila della politica per gestire una transizione morbida vero nuovi equilibri. Ciampi e Dini vengono di lì. Fazio avrebbe fortemente voluto imitarli. Ma non sempre la storia si ripete.

Gli errori di Bankit sono stati pesanti già in passato. La politica degli alti tassi d'interesse negli anni '80 ha causato una forte impennata al deficit pubblico italiano, contribuendo insieme a politiche fiscali rilassate (che erano in realtà il vero obbiettivo da colpire secondo Bankit), alla disastrosa lievitazione dello stock globale del debito statale. La scelta del 1992 di difendere la lira fino allo spasimo contro la speculazione si rivelò un costoso disastro, che bruciò quasi completamente le riserve valutarie italiane, senza riuscire ad evitare la svalutazione della moneta. Tuttavia le prerogative di Banca d'Italia sono state seccamente ridimensionate con la moneta unica: adesso le sue funzioni si limitano alla vigilanza sulle banche e alla tutela della stabilità del sistema, per difendere il risparmio e garantire la concorrenza. È proprio su questi terreni ridotti che il comportamento di Fazio si è dimostrato carente, sbilanciato, latitante. Già nel caso delle Opa lanciate insieme da Sanpaolo su Banca di Roma e da Unicredit su Comit, nel marzo 1999, Fazio aveva assunto un atteggiamento ostile, che aveva portato al fallimento delle due operazioni, con l'unica motivazione ufficiale che non erano state concordate preventivamente e quindi non avevano rispettato in modo reverenziale il suo personale potere di veto. Poi la Comit sarebbe andata a Banca Intesa e Banca di Roma avrebbe proseguito una lunga teoria di acquisizioni molto discussa, ma inarrestabile, dovuta prevalentemente alla relazione personale fortissima tra Fazio e Geronzi, un altro lontano prodotto della fucina Banca d'Italia. La carriera di Geronzi e la marcia trionfale della sua Banca di Roma avrebbero finito per assorbire anche la Bipop, la banca bresciana che ha rappresentato l'ultimo clamoroso scandalo bancario. L'ascesa fulminea di Bipop era avvenuta tra il 1996 ed 2001, nel periodo del pieno controllo di Fazio sul sistema, e si era avvalsa di sistemi incredibili, con accaparramento di molti miliardi da parte degli amministratori e l'utilizzo di contratti bancari, come le gestioni patrimoniali garantite e riempite di azioni proprie, del tutto fuori dalla legge. Eppure le ripetute ispezioni di Banca d'Italia non avevano rilevato nulla di anomalo, finché il bubbone non scoppiò da solo dopo il crollo delle quotazioni azionarie. Le stesse ispezioni su Banca di Roma, adesso divenuta Capitalia, non hanno mai portato a provvedimenti seri, nonostante la Capitalia dell'amico Geronzi si collochi curiosamente al crocevia di tutte le operazioni finanziarie più sporche che sia dato conoscere (Cirio, Parmalat, Giacomelli, moltissime società di calcio, ecc. ). È oggi forte il sospetto che Capitalia abbia organizzato alcune di queste operazioni andate storte con l'obbiettivo esclusivo di liberarsi di una parte delle proprie sofferenze, facendo acquisire aziende decotte a imprenditori senza scrupoli o senza possibilità di scelta, e in alcuni casi (come Tanzi) addirittura presenti nel proprio Cda.

Di tutto questo Fazio doveva rispondere, di fronte ad un'opinione pubblica infuriata dalla troppe perdite e contro un governo che gli ha mandato contro Tremonti, ben intenzionato ad ottenere la testa del Governatore. Come era prevedibile, Fazio ha svolto una lunghissima e meticolosa difesa d'ufficio del proprio comportamento, rimandando in campo avverso ogni responsabilità. I poteri di controllo di Bankit non erano a suo avviso in grado di prevenire o impedire crack come quelli di Cirio e di Parmalat, l'emissione dei bond è avvenuta prevalentemente fuori del territorio dello stato, le banche lavorano sull'ipotesi di affidabilità dei bilanci, la salvaguardia del sistema bancario deve fare premio su ogni altra considerazione. Quanto a Tremonti, la battuta di Fazio è stata molto netta ("è un esperto di paradisi fiscali") e identico trattamento è stato riservato al Presidente del Senato ("Pera chi?"), che l'aveva criticato in precedenza.

È evidente che assistiamo ad uno scontro tra poteri che non ha altro fine, se non il regolamento di conti. In particolare Berlusconi intende sfruttare l'attuale momento di difficoltà di Banca d'Italia per limarne le competenze e ridurne l'autonomia. È paradossale che alla tutela dei risparmi finga di interessarsi un governo che ha lavorato tre anni per depenalizzare il falso in bilancio e gli altri reati finanziari collegati, che proviene da un'azienda continuamente inquisita negli anni precedenti per reati analoghi, che attacca quotidianamente i magistrati che intendono indagare sui conti Mediaset. Non a caso Berlusconi ha fermato il decreto che avrebbe dovuto regolamentare ex-novo tutta la materia. Ufficialmente per non scoraggiare gli imprenditori esteri che vogliono venire a investire in Italia, in pratica perché teme che rafforzare i poteri investigativi e repressivi della Magistratura e della Guardia di Finanza possa avere conseguenze dirette (e indesiderate) sui propri affari poco puliti.

Non dimentichiamo che molte società off-shore (il principale strumento della macchinazione Parmalat) sono usate quotidianamente dalle imprese italiane e che Mediaset era sotto inchiesta per averne usata una gonfiandone i bilanci in modo artificioso, valutando a capocchia il valore dei diritti televisivi e cinematografici. Una cosa non molto diversa dalla vendita di latte in polvere inesistente a Cuba, da parte di Parmalat.

L'ipotesi su cui sta lavorando il governo sembra quindi quella di un trasferimento delle competenze di Banca d'Italia su fusioni e acquisizioni bancarie, verso la Commissione Antitrust di Giuseppe Tesauro, e la creazione di una super Authority per sorvegliare sulle emissioni di bond e azioni, da affiancare alla Consob, anch'essa fortemente latitante sul piano dei controlli.
Assistiamo così ad una gigantesca operazione di maquillage cosmetico, con la creazione di nuove e costose strutture di controllo formale, il cui ambito d'intervento viene però sempre delimitato dalla vitale esigenza delle imprese di sottrarsi a qualunque serio controllo contabile, amministrativo e fiscale. Il problema è dare in pasto all'opinione pubblica l'idea che qualcosa è stato fatto, per prevenire i disastri del futuro, mentre nei fatti restano in vita centinaia di possibilità di eludere i controlli, occultare la base imponibile, presentare bilanci di comodo.
Intanto l'inchiesta Parmalat prosegue, rivelando un groviglio di interessi sempre più complesso e delicato da riferire. Gli ultimi interrogatori di Tanzi e Tonna sono stati secretati, perché probabilmente si è cominciato ad affrontare il livello dei politici coinvolti, dei funzionari pubblici corrotti, dei banchieri compiacenti. La Price Waterhouse ha contato circa 14,3 miliardi di euro di debiti complessivi, cifra che riporta quasi a zero le possibilità di riavere qualcosa sia per le banche che sono esposte per circa 3,1 miliardi di euro (di cui circa la metà di competenza di banche italiane), sia per i risparmiatori che hanno in varie fasi comprato i 32 prestiti obbligazionari emessi dalla banda di Collecchio, per un totale (sembra) di 9 miliardi di euro. Il "tesoro dei Tanzi" non sarebbe, secondo le ultime notizie, concentrato su un unico deposito bancario, ma polverizzato in tante piccole fiduciarie alimentate gradualmente, nel tempo, e disperse, sul piano geografico. Sarà molto dura metterne insieme le tracce, con il risultato di raggranellare, al massimo, qualche centinaia di miliardi di euro.

La nuova società partirà, banche permettendo, entro marzo, con un'iniezione di liquidità da 150 miliardi di euro, di sui 35 gentilmente forniti da Calisto, per ammorbidire un po' i giudici che decideranno sul suo caso.

Intanto la sindrome da falso in bilancio si sta allargando a macchia d'olio, con la Consob che ha almeno una ventina di aziende sotto tiro, a cominciare da Finmatica ai cui amministratori è già arrivato l'avviso di garanzia ed il relativo provvedimento di arresto. L'ondata moralizzatrice sta assumendo proporzioni importanti, sull'esempio degli Usa del dopo Enron.

È probabile che nei prossimi mesi vedremo sgonfiarsi molti palloni e magari anche cadere qualche stella.

Renato Strumia














 

 



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