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Da "Umanità Nova" n. 5 del 15 febbraio 2004

Il mercato della salute
La controriforma dei servizi alla persona


Da quasi dieci anni è in corso nel nostro paese una generale controriforma dei servizi alla persona, siano essi sanitari o assistenziali. Questo riformismo all'incontrario è collegato al più generale attacco al reddito delle classi subalterne e dei lavoratori espresso dall'innalzamento dell'età pensionabile, dal taglio della rendita pensionistica, dal crollo del potere d'acquisto dei salari, dalla privatizzazione di comparti come quello della scuola.

Nel settore dei servizi l'attacco è stato modulato colpendo l'unico diritto certo ed esigibile che è quello alla salute stabilito dalla riforma sanitaria del 1978. La legge Turco-Veltroni che ha riscritto possibilità e modalità d'accesso all'assistenza (la Legge 328 del 2000), non a caso, è incentrata sulla limitazione dei casi nei quali il cittadino può rivolgersi all'assistenza sanitaria e sull'ampliamento di quelli in cui ricade nell'assistenza tout court. Nel primo caso, come abbiamo visto, il diritto ad avere delle cure è sempre esigibile e l'amministrazione è tenuta ad assistere il cittadino, nel secondo invece no, la possibilità di essere assistito dipende da quanti fondi ha l'amministrazione in cassa e dalla sua volontà di spenderli in questo settore.

Per istituzionalizzare questa novità la legge 328 ha inventato un nuovo settore: il comparto socio-sanitario all'interno del quale ricadono non solo i "clienti" tipici dell'assistenza come i disabili e i minori da tutelare, ma anche i malati degenerativi, i tossici, gli alcolisti, coloro che in seguito a ictus o ad incidente sono parzialmente o totalmente non autosufficienti e via dicendo. Praticamente solo il pronto soccorso, le operazioni chirurgiche e le fasi terminali di malattie mortali sono ancora considerate assistenza sanitaria e, quindi, un diritto esigibile. Per tutto il resto rivolgersi agli enti competenti e sperare che ci sia la possibilità di ottenere qualcosa. Altrimenti, mettere mano al portafoglio e rivolgersi al mercato.

All'interno di questo quadro la legge fissa anche le competenze dei vari enti per l'assistenza assegnando la sanità alle ASL dipendenti per il finanziamento dalle Regioni, e il comparto socio-sanitario ai Comuni, con un finanziamento tripartito: la parte sanitaria all'ASL, la parte educativa o assistenziale ai Comuni, e la parte "alberghiera" (ossia i pasti e i posti letto) direttamente agli utenti del servizio o alle loro famiglie.

Naturalmente la disponibilità dei Comuni al pagamento della quota che spetta loro non è completa: in parte viene coperta chiedendo un ulteriore contributo alle famiglie, in parte può non essere proprio erogata, dal momento che il diritto ad ottenerla non è sancito da nessuna legge ma è solo prevista la possibilità di richiederlo. Tutto dipende dalle casse comunali e dalle priorità di spesa dell'amministrazione in carica.
I decreti successivi hanno poi precisato la necessità di stabilire una soglia minima di accesso ai servizi, ispirata ai livelli essenziali di prestazione previsti dalla Legge 328, la cui concreta attuazione è stata rimandata ai piani sanitari regionali. In Piemonte il piano suddetto ha di fatto delegato ai Comuni la definizione della soglia, non prima di essersi premurata di fissare dei limiti che non permettessero a un'ipotetica amministrazione "mani bucate" di concedere troppo in assistenza. Il Comune di Torino sta adesso lavorando al suo piano di offerta che sarà molto limitata e comprenderà nuovi carichi finanziari per le famiglie che, da ora in poi, saranno obbligate a pagare per il famigliare anche se non hanno più rapporti con lui da anni. In pratica un'estensione dei cosiddetti doveri familiari che si configura come uno scarico diretto dei costi del servizio da parte dell'amministrazione verso i nuclei familiari.
Naturalmente non sono solo gli utenti dei servizi a subire la riorganizzazione in senso privatistico e a pagamento degli stessi; i lavoratori dei servizi sono oggi sottoposti a pressioni spaventose nel senso dell'aumento dei carichi di lavoro e della precarizzazione della loro prestazione. Il Comune di Torino ha infatti deciso di limitare al minimo il proprio intervento diretto trasformando i propri dipendenti che lavorano sul settore (siano essi educatori o assistenti domiciliari o operatori sociosanitari) da lavoratori a contatto con l'utenza a lavoratori che effettuano la cosiddetta "presa in carico", ossia che istruiscono una pratica per ogni utente e si preoccupano di trovare nel privato sociale, nelle cooperative o nel volontariato il lavoratore che si occuperà materialmente di questi utenti. In pratica il lavoro delle assistenti sociali svolto a un salario nettamente inferiore.

A non finisce qui: se il rapporto tra amministrazione e privato sociale era un tempo scandito dalle date di scadenza degli appalti con i quali la prima appaltava al secondo la gestione di un servizio oggi non è più così. Il principio della gara di appalto, nonostante il costo del lavoro nettamente inferiore nel privato sociale è stato ritenuto troppo alto e l'esimio assessore Lepri (che i lettori di UN conoscono già), uomo dell'Ulivo che verrà, ha creato un diverso meccanismo che lo rende ancora più basso e consente all'amministrazione un ulteriore risparmio sui costi strutturali. Questo eroe dei nostri tempi ha utilizzato semplicemente il modello in uso all'interno delle imprese per le forniture esterne: la creazione di una lista di fornitori accreditati che rispondano a determinate caratteristiche tra i quali scegliere, con il criterio del prezzo più basso, quello più confacente alle proprie aspettative. La conseguenza del criterio del prezzo più basso è l'accresciuta difficoltà per le cooperative a gestire i servizi secondo i criteri "di qualità" previsti dall'accreditamento. Questo dato porterà probabilmente in tempi brevi alla chiusura di molti servizi o, meglio, al loro assorbimento da parte di cooperative più grandi capaci di ammortizzare meglio la caduta dei prezzi. In pratica una spinta all'oligopolio… E poi dicono che il pubblico si ritira dall'economia…

In soldoni l'utente inserito in una comunità, in un centro diurno, piuttosto che in un affidamento temporaneo, non lo è più per un certo numero di anni, ma solo fino a quando il referente dell'amministrazione lo riterrà soddisfacente o abbastanza a buon prezzo. Naturalmente questo fa sì che l'educatore o l'operatore dei servizi del privato sociale non abbia più alcuna possibilità di costruire progetti educativi a favore dell'utente, ma sia un semplice esecutore di quanto deciso in altra sede.
La dinamica del fornitore accreditato ha però un risvolto ben più tragico per i lavoratori del privato sociale: con la possibilità di inserire e disinserire utenti viene a cadere la possibilità della continuità del lavoro, e gli operatori di questi servizi si troveranno a lavorare solo per periodi di tempo oltretutto non definibili a priori ma verificabili solo al termine del mandato. Per esempio. Se un lavoratore di una cooperativa viene chiamato a svolgere un progetto educativo su di un utente che tre mesi dopo viene trasferito per imperscrutabile volontà dell'amministrazione, egli non potrà che perdere il lavoro e trovarsi senza stipendio, a meno che la sua cooperativa non abbia (e non voglia) trovargli qualche cosa d'altro da fare. Anche se con la nuova legge sul socio lavoratore la cooperativa non è costretta a trovargli un altro posto se il socio non è anche lavoratore dipendente.

In pratica abbiamo qui una possibile applicazione delle novità della legge Biagi: contratto "a chiamata", per cui lavori e prendi lo stipendio solo quando è necessaria la tua opera, e contratto "a progetto", per cui lavori solo per la durata di un progetto (ad esempio un inserimento di un utente), quando questo finisce a casa e tanti saluti. Quindi una condizione assimilabile a quella dei servi nelle economie della prima modernità: nessun diritto, il lavoro come gentile elargizione e la centralità assoluta delle ragioni dell'impresa nella società.

Flora Purim















 

 



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