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Da "Umanità Nova" n. 6 del 22 febbraio 2004

Un inferno tropicale
Haiti: la rivolta dei disperati


Duecento anni fa, il 1 gennaio, Haiti acquistava, prima tra le nazioni oltreoceano, l'indipendenza dalla colonia francese, rigettando indietro i padroni francesi con le loro stesse armi: la pratica presa sul serio della liberté, dell'egalité e della fraternité, con cui i rivoluzionari e Napoleone erano arrivati al potere sbaraccando gli aristocratici.

Sono stato ad Haiti due anni orsono, e sarebbe facile dire di avere trovato un popolo assoggettato come non mai, ma non a un padrone di sangue blu, quanto a una società anonima e disgregata, tipicamente figlia di un duro regime di esclusione globale che negli anni precedenti aveva tagliato l'isola caraibica da ogni prospettiva di esistenza degna di tale nome, vedendosi svanire ogni traffico di ricchezza sociale.

Dai trasporti all'alimentazione, dall'energia all'edilizia, Haiti conta deficit inarrivabili anche rispetto ai suoi vicini domenicani dell'altra metà dell'isola, che pur di agganciarsi allo spirito della globalizzazione hanno trasformato Santo Domingo in un paradiso fiscale attirando tanti speculatori e traffichini vari, tangentomani nostrani inclusi.

La rivoluzione di Toussaint a fine Settecento era finita in un bagno di sangue: quasi tutti i bianchi erano stati sterminati, e all'alba dell'indipendenza pochi erano i mulatti e i meticci, per cui oggi Haiti è una nazione a giusto titolo partecipe della grande nazione africana. Nazione forse è un nome grosso: gli unici legami sociali sono di pallida origine religiosa, non certo politica o economica, mentre molti haitiani sono scappati in Florida, da dove inviano grosse quantità di denaro che rappresentano la prima entrata del paese, unitamente ai beni di consumo che si portano affastellati sui sedili e nei corridoi degli aerei che fanno la spola da Miami a Port-au-Prince, all'alba di ogni mattina.

Uscita stremata dalla dittatura familiare dei Duvalier, papa Doc (1957-1971) e il figlio Baby Doc (1971-1986), dopo qualche fase di assestamento con giunte militari al governo, l'attuale presidente Aristide, un saveriano populista che conta numerosi seguaci presso una popolazione cristiana, animista e dalle tante chiese in cui si tollerano riti voodoo, ascende al potere nel 1990. Osteggiato dagli Usa per la sua pretenziosa idea di migliorare le condizioni sociali della popolazione ridotta allo stremo, un golpe lo depone costringendolo a rifugiarsi proprio negli Usa, che lo accolgono e lo istruiscono a dovere sino a reinsediarlo al potere nel 1994 con un intervento militare e umanitario contro i militari golpisti: quando si dice esportare la democrazia si pensa insomma a Clinton, non a Bush!

Il ritorno di Aristide avviene però quando progressivamente investitori privati (ad esempio Club Méditerranée) e agenzie finanziarie internazionali sono andati via, comprese le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, e l'isola si trova da sola a fronteggiare la riforma agricola, la disoccupazione in crescita, la crisi della pesca, per non parlare dei flussi illegali che vengono attirati da Cuba quale piattaforma di smistamento nel traffico sud-nord di sostanze proibite dirette al ricco mercato statunitense: Cuba garantisce meglio i proventi dei traffici, ne ha maggiormente bisogno dopo la caduta dello sponsor sovietico, e Haiti si riduce all'elemosina, letteralmente. Abbiamo incontrato, nella settimana di contatti per avviare ipotetici progetti di cooperazione internazionale, numerosi esponenti della società civile, ma anche esponenti dell'opposizione, che programmavano ricette improbabili pur di auspicarsi mance volanti di 10mila dollari, vuoi per una filiera di produzione di bugie di cera i cui utili servivano per finanziare l'incipiente guerriglia al nord del paese, vuoi per una serie di interventi culturali tra gli artisti e le donne i cui utili servivano per migliorare la condizione dei proponenti, un tempo alti funzionari dello stato, per così dire.

Se l'unico pilastro di trasformazione elettrica era saldamente piantato all'interno delle mura presidenziali, nonostante i ricorrenti black out egualitariamente distribuiti su tutte le fasce sociali, ministeri inclusi, appena fuori dalla capitale la situazione rurale diveniva desolata ma più ricca di comunità. In altri termini, chi aveva resistito alla tentazione magnetica di trasferirsi nella capitale, cresciuta a dismisura (oltre un milione dei sette milioni e mezzo di residenti), cercando fortuna in una delle numerose bidonvilles dove le fogne a cielo aperto passavano tra le baracche e le case di calce e mattoni in cui convivevano animali e umanità varia in ognuna delle funzioni collettive (scuola, famiglia, lavoro), si atteneva a una miseria integrata in comunità abbandonate dalle autorità ma non dal dio qualunque che rimediava loro una sopravvivenza dignitosa ma breve (assistenza sanitaria zero, tranne che per qualche pregevole erba, unguenti formidabili e santoni miracolosi, che nulla possono verso la mortalità infantile ascesa al 76 per mille e alla diffusione dell'Aids).

Dal 2000 in poi la tensione sociale era palpabile, Aristide volava sempre più spesso via a cercare aiuti, Taiwan era il primo stato amico, e ciò la dice lunga su quanto Haiti pesasse e pesi nella considerazione geoeconomica e geopolitica globale. A duecento anni dalla libertà, ritornavano i famigerati ton ton macoutes dei Duvalier a terrorizzare la popolazione, questa volta schierati con il potere legale democratico e non dittatoriale, anche se a quelle latitudini la linea di distinzione si fa sempre più sottile, esattamente come a un'ora di volo in direzione nord (e non intendo riferirmi all'Avana…).

Nel frattempo, a quanto pare, resta solo un drappello di Reporters sans frontières (dopo l'assassinio della star del giornalismo locale) a raccontarci, unitamente a qualche missionario cattolico, il tentativo di unificazione dei vari gruppetti di opposizione prima politica e ora anche armata, che sta costringendo, nell'indifferenza totale pure del padrone del cortile domestico, come direbbe Chomsky, i familiari del presidente a una precipitosa fuga, sempre in direzione Miami, reiterando una emigrazione unidirezionale sia pure munita di qualche dollaro in più, almeno così si sospetta.

A parte la rabbia accumulata negli anni, alimentata dalla delusione di un tradimento inaspettato da parte di Aristide su cui tutti gli haitiani avevano riversato le proprie speranze dopo decenni di terrore di stato, il Fronte di Liberazione Nazionale rivendica con orgoglio le proprie origini del gennaio 1804, impedendo le celebrazioni ufficiali che danno il via alla ribellione e ai primi bagni di sangue (ad oggi quasi 60 i morti in scontri con la polizia di Aristide). Non si conoscono documenti politici che indichino la raggiunta maturità di una piattaforma sociale ed economica che restituisca alla popolazione gli strumenti per autogovernarsi senza confidare in una elemosina internazionale sempre più micragnosa, data la sfortuna dell'isola di non avere giacimenti di alcunché e di produrre banane come ogni paese tropicale.

L'augurio di una rinnovata libertà si miscela col ricordo disincantato degli incontri avuti, la cui cifra di velleitarità non depone a favore della guerriglia, non tanto nel senso di un cambiamento politico possibile, che potrebbe apportare un ripristino di condizioni decenti di democrazia, quanto nel segno di un'affermazione di un ceto popolare che non si stacchi come ennesima élite dalle masse ma che le rispetti nelle istanze offrendo a quell'80% di popolazione che dispone di 1 dollaro al giorno, come recitano le statistiche di rispettabili istituzioni internazionali, un modello di sopravvivenza tra le pieghe ignorate di un mercato globale che dal globo terracqueo sembra avere dimenticato Haiti e tutti gli afro-haitiani.

Massimo Tessitore
















 

 



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