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Da "Umanità Nova" n. 7 del 29 febbraio 2004

Serial killer in divisa
Verso un 20 marzo antimilitarista


Spesso un disegno, una vignetta, un manifesto, raccontano altrettanto bene quanto si può dire con le parole, e un'immagine indovinata può comunicare in un batter d'occhio anche il pensiero più complesso.
Molti certamente lo ricorderanno. Piccolo e a colori, uno dei manifesti più belli, fra i tanti con i quali il movimento anarchico ha espresso il suo radicale antimilitarismo: una elegante divisa militare, gallonata e piena di mostrine, che finiva in un maleodorante bidone della spazzatura. Se non vado errato, il testo era un essenziale "dissociamoci dalle forze armate". Tutto lì, quella divisa, con il suo carico di autoritarismo e retorica, andava a far compagnia, fra un nugolo di mosche, a una foglia di lattuga marcia e a una scatoletta bisunta di pessimo tonno. Cos'altro si sarebbe potuto aggiungere?

Ce n'è ancora bisogno di immagini come queste! E di questi contenuti, perché grande è la confusione sotto il cielo, e questa confusione, questa sostanziale incapacità di coniugare le istanze pacifiste con contenuti coerentemente antimilitaristi, la vediamo tutti i giorni. Nelle piazze, dove la generosa volontà per un mondo senza guerre si isterilisce in velleitari afflati umanitari, nei palazzi della politica, dove retoriche di segno contrario organizzano disgustose combine mascherate da scontri epocali sul senso della vita.
Siamo a un anno dall'invasione dell'Iraq, a due da quella dell'Afganistan, a quattro o cinque dalla guerra nel Kosovo, e non sono tanto lontani i tempi delle guerre balcaniche, di Desert Storm, dell'intervento in Somalia e di cos'altro ancora. Una lunga e ininterrotta sequenza di interventi umanitari, di guerre preventive, di operazioni antiterrorismo. Di conflitti, orditi e organizzati dai potentati economici e combattuti con patriottica lealtà da compiaciuti serial killer in divisa. Tante le motivazioni, tante le alleanze, gli schieramenti, le giustificazioni, le legittimazioni internazionali e sovranazionali, ma sempre e solo un fine: il diritto della forza che trionfi; sempre e solo un risultato: popolazioni civili massacrate, costrette alla fame, alla disoccupazione, alle violenze degli eserciti, occupanti o liberatori nessuna differenza. E alla fine un trattato che sancisca una tregua, un qualche contratto fra gentiluomini per spartirsi il bottino, un dotto saggio di diritto internazionale ad uso delle candide anime legalitarie. Un gioco sporco, condotto non solo sui campi di battaglia, e non solo da quei convitati che saremmo sicuri di trovare al macabro festino.
Sulla opposizione o sull'appoggio alla guerra (meglio sarebbe dire alle guerre), infatti, si sta giocando un po' dappertutto la solita partita. E con protagonisti che, pur nella diversità delle situazioni, ricoprono identici ruoli. Ovunque, infatti, alla cosiddetta lobby delle armi, si oppone quella cosiddetta della pace. E se la prima, fatte salve alcune differenze, rappresenta comunque un corpo compatto e omogeneo in quanto espressione di interessi sostanzialmente coincidenti, la seconda, e in Italia in modo particolare, appare espressione di motivazioni molto contrastanti, che hanno come comune denominatore solo l'opposizione a questa o quella guerra. Di esempi ne abbiamo quanti vogliamo.
È di questi giorni il "sofferto e lacerante" dibattito, interno alla cosiddetta sinistra che siede al palazzo, sull'appoggio alla spedizione di occupazione italiana in Iraq. Da una parte il solito opportunismo di chi cerca di cavalcare ancora un po' l'onda lunga del pacifismo nazionale, sicuro di farci un buon affare, dall'altra l'ipocrita strumentalità di chi pensa di sottrarre qualche voto all'elettorato qualunquista e patriottardo, cavalcando la tigre dei buoni sentimenti e degli "eroi di Nassirya". E in mezzo, al solito, la carne da cannone (anche se stiamo parlando di pacifismo), vale a dire quella marea di persone ancora ferme, ne siamo sicuri, nella loro opposizione alla guerra, ma decisamente demotivate e incapaci di ritrovare quei momenti di partecipazione diretta che avevano caratterizzato il loro impegno pacifista in questi ultimi tempi. Un impegno forte e ricco di valori, va riconosciuto, che ha saputo anche resistere, più volte, alle sirene del "pacifismo" istituzionale, e che forse ritroverà l'antico smalto a Roma il prossimo 20 marzo, ma che non è riuscito a compiere quel salto di qualità, almeno così l'intendo, senza il quale il desiderio di fermare la violenza degli Stati resta una istanza senza sbocco. E questo salto di qualità, è ovvio, non può essere che il passaggio a una coerente coscienza, a una fattiva volontà antimilitarista.
Noi lo sappiamo. Noi l'abbiamo sempre saputo che non esistono eserciti buoni, che il mondo non sarà in pace finché ci saranno i professionisti della guerra, che la mentalità gregaria fa buono il soldato e cattivo il cittadino, che quando lo stato si prepara ad ammazzare si fa chiamare patria, che obbedire a un ordine è mancare alla propria dignità. E abbiamo fatto di questa consapevolezza un impegno costante, che va ben oltre il pacifismo e che non viene mai meno, che si esprime contro le guerre e contro le servitù militari, contro il lavaggio delle coscienze e contro l'occupazione del territorio, contro la retorica della patria e contro la "difesa" dei sacri confini. Noi lo sappiamo che non c'è un militarismo buono e uno cattivo.

Noi lo sappiamo. Noi l'abbiamo sempre saputo, e lo dicemmo anche con un manifesto, con la sua bella, elegante divisa, rifiuto fra i rifiuti, nel bidone della spazzatura.

Massimo Ortalli

















 

 



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