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Da "Umanità Nova" n. 7 del 29 febbraio 2004

Chiapas, dieci anni dopo
Nulla è più come prima


Sono passati più di dieci anni da quel primo gennaio 1994 quando la bandiera nera a lettere rosse dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale sventolò a San Cristòbal de las Casas, inaugurando un periodo di insorgenza e di riscatto delle popolazioni indie (e non solo di quelle) che non si è ancora esaurito. Dieci anni densi di avvenimenti e ricchi di riflessioni, quali, molto probabilmente, il povero contadino de Los Altos, mai si sarebbe sognato di suscitare.

In molti paesi gli avvenimenti di quel gennaio raccolsero (e continuano in parte a raccogliere) una generica e superficiale simpatia, sull'onda forse del ricordo delle sollevazioni indigene dell'inizio del secolo appena trascorso (Pancho Villa ed Emiliano Zapata tanto per intenderci), oppure di una visione mitica dell'indio come tenutario di una saggezza antica, di un'umanità inscindibile con la natura. In diversi ancora hanno ravvisato nella pratica zapatista - almeno di quella del periodo iniziale - una continuità, fuori tempo, con altre esperienze guerrigliere latinoamericane. Ma ci sono voluti anni prima che lo zapatismo venisse colto nella sua reale portata, al di là del mito o delle convenienze di una sinistra ancora stordita dal crollo del muro di Berlino. Una sinistra che accolse sorpresa la scesa in campo degli indios chapanechi in un momento storico in cui niente e nessuno sembrava potesse fermare l'ondata "neoliberista", il riflusso delle lotte, il trionfo della logica d'impresa e della cultura del profitto, l'affermazione del pensiero unico, lo smantellamento delle conquiste sociali. Eppure proprio nel giorno in cui il Messico si consegnava mani e piedi al potente vicino nordamericano, firmando gli accordi del Nafta, un pugno di indios indomiti e determinati ebbe il coraggio di dire "ya basta!", ora basta.

Negli anni che seguirono molti si eserciteranno a disquisire se ci sarebbero state Seattle, Genova, Praga, ecc., senza il Chiapas. Molto più realisticamente (e forse modestamente) gli zapatisti, per bocca di Marcos, diranno di essersi sentiti un sintomo di qualcosa che stava succedendo o che stava per succedere. Usando l'immagine dell'iceberg essi rifiuteranno primogeniture e respingeranno la pretesa di rappresentare un modello di riferimento. Probabilmente la loro scesa in campo è giunta a maturazione prima di altre solo perché le condizioni  erribili in cui erano costretti a vivere, e che sarebbero state aggravate dall'ingresso del paese nel Nafta, non permetteva loro alcuna via d'uscita. Non dimentichiamo che il Chiapas è un piccolo stato posto al confine meridionale del Messico; tre volte più grande della Lombardia, conta 3.200.000 abitanti, dei quali 500.000 indios, appartenenti ad una decina di etnie ed idiomi, per lo più di origine maya. Crocevia obbligato fra il Messico e gli altri paesi del Centro e Sud America è la prima tappa del movimento migratorio centroamericano e del traffico di droga verso gli USA. Ricco di risorse come l'acqua, dal cui imbrigliamento si produce l'energia elettrica per gran parte del Messico, e di giacimenti di uranio, gas e petrolio, possiede anche una notevole produzione di legname pregiato, mais, caffè, banane, cacao, agrumi e frutta tropicale. Ma nonostante le sue ricchezze, è uno degli stati del Messico con il più basso livello di vita a causa della povertà e dell'emarginazione della popolazione indigena. Il 23% della popolazione dai 15 anni in su è analfabeta ed il 50% non ha terminato la scuola elementare. Quasi un abitante su cinque ha la casa senza sanitari; dodici su cento vivono in case senza energia elettrica; uno su quattro senza acqua corrente; quattro su dieci hanno pavimenti in terra e quasi due su tre vivono in abitazioni sovraffollate. Inoltre ha il più alto primato di mortalità infantile (32 morti ogni 1000 nati vivi) e la maggiore incidenza di tubercolosi a livello nazionale.

In questo quadro allucinante l'azione indigena ha avuto il grande merito di mostrare al mondo contemporaneo degli esclusi e degli oppressi la via dell'insurrezione di massa come metodo di risoluzione delle tragedie che il sistema delle gerarchie statali, con tutti i loro autoritarismi, le loro ruberie, le loro corruzioni, impone loro. E se di certo non si può dire che la via intrapresa abbia portato ad un risultato definitivo quello che è altrettanto sicuro è il mutamento culturale innescato da tale processo. Un mutamento che ci fa dire che dopo il primo di gennaio 1994 nulla è rimasto come prima.

Se nelle campagne l'agricoltura, quasi spesso l'unica risorsa di vita per gli indios, è in piena crisi grazie al crollo dei prezzi dei prodotti, travolti dalla concorrenza di quelli "tecnologici" di provenienza nordamericana; se la disoccupazione dilaga costringendo all'emigrazione clandestina negli USA; se, in buona sostanza, l'insorgenza india non è riuscita a ribaltare la situazione, frutto di una politica che si gioca su ben altri piani, certo è che la loro iniziativa ha dato un contributo fondamentale (e per alcuni decisivo) ad un processo di chiarificazione, di presa di coscienza, di mobilitazione che troverà poi, nelle manifestazioni a livello internazionale contro la globalizzazione capitalistica, un ulteriore elemento di espressione.

La ribellione secolare degli indios è diventata insurrezione cosciente, parte di un movimento  di contestazione e di costruzione, che non rivendica solo il riconoscimento dei "diritti" e delle libertà, ma intende metterli in pratica, promuovendo organizzazione e socialità liberata e rimettendo in discussione una serie di punti fondamentali nella teoria e nella pratica del socialismo e del comunismo: dal concetto di egemonia a quello di classe intrinsecamente rivoluzionaria, dalla presa del potere alla concezione del partito come avanguardia, dall'esercizio della violenza rivoluzionaria al militantismo di professione. Messa in discussione non certo nuova per gli anarchici, ma particolarmente significativa perché prodotta all'interno di un movimento di popolo alle prese con le modificazioni e le complessità dell'agire contemporaneo. Una messa in discussione che dà a volte l'impressione di una deriva riformista od opportunista di un movimento di liberazione nazionale, oppure di un macchiavellismo tardo maoista che intende occultare le sue vere mire in un contesto sfavorevole all'affermazione del comunismo, ma che ha il grande merito di aver rotto con le regole più che centenarie, scritte e non scritte, del socialismo autoritario, e, ciò che è più importante, di aver rotto con i meccanismi di subordinazione culturale e sociale. Un merito che hanno colto, quanti, da anni stanno operando fattivamente in solidarietà con questa realtà, lavorando sul campo, raccogliendo sottoscrizioni, inviando materiali (come in campo libertario in particolar modo "Tierra y Libertad" e l'USI Sanità con il Progetto Libertario Flores Magon).

Oggi, con la trasformazione delle "aguascalientes" in "caracoles", veri e propri consigli dell'autogoverno, frutto di un'esperienza decennale iniziata con i "municipi autonomi in rivolta" , il movimento zapatista vuole aprire "una nuova possibilità di resistenza e di autonomia dei popoli indigeni e messicani e del mondo, una resistenza che include tutti i settori sociali che lottano per la democrazia, la libertà e la giustizia per tutti" secondo quanto affermato dal comandante Javier.

Certo non dobbiamo illuderci che questa forma organizzativa, frutto soprattutto della volontà zapatista di rispondere al rinnegamento degli accordi di Sant'Andrés da parte del governo ed al suo rifiuto di riconoscere i diritti delle popolazioni indie, con la costruzione dell'autonomia nei "territori ribelli", rappresenti un'affermazione libertaria, tanto più che come afferma "La Jornada": "Il progetto di potere non si costruisce con la logica del 'potere dello Stato' che imprigionava le posizioni rivoluzionarie o riformiste precedenti, lasciando privo di autonomia il protagonista principale, fosse esso la classe operaia, la nazione o la cittadinanza. E neppure si costruisce con la logica di creare una società anarchica, secondo la logica che prevaleva nelle posizioni anarchiche e libertarie (…), ma che invece si rinnova con i concetti di autogoverno della società civile che acquista 'potere' tramite una democrazia partecipativa, che sa farsi rappresentare e sa controllare i propri rappresentanti perché rispettino i 'patti'". Una terza via, insomma, che si fa forza della tradizione comunitaria degli indios senza aver però la pretesa di rappresentare una "teoria generale" che valga ovunque, per tutti e per sempre.

In Chiapas continua ad affermarsi uno sperimentalismo, con gli occhi aperti sul mondo e le sue diversità, che tenta di dare risposte locali alle esigenze di vita di popolazioni sofferenti in un contesto di crescente violenza militare e paramilitare (è di pochi giorni fa l'assassinio di due basi d'appoggio zapatiste) in collegamento concreto con le lotte internazionali contro le politiche di rapina e di morte. È uno sperimentalismo che merita attenzione per i contributi che ha dato e che può dare alla grande causa della liberazione dell'umanità.

Massimo Varengo

















 

 



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