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Umanità Nova, numero 8 del 7 marzo 2004, Anno 84

Mani sporche di sangue
20 marzo contro tutti gli stati, tutte le guerre, tutti gli eserciti



La guerra, come la morte, si colloca nella zona arida del pensiero in cui mettiamo ciò che si pone ai limiti del concepibile. Eppure essa sta, stabilmente, nel nostro orizzonte quotidiano. Non ha mai cessato di starvi e, ormai da qualche anno, ci coinvolge in prima persona. Ci coinvolge come cittadini di uno stato che è in guerra. Umanitaria, preventiva, antiterrorista ma, sempre, guerra.

Cambiano gli aggettivi per definirla, per darle una collocazione altrimenti impensabile nei limiti del nostro ordinamento costituzionale, ma l'intervento di uomini e donne in armi, in paesi sconvolti dai bombardamenti ed occupati militarmente, si chiama guerra. Quando l'occupazione mira a divenire stabile il nome giusto è colonialismo. L'italiana Barbara Contini si accinge ad assumere il controllo della provincia meridionale di Dhi Qar in Iraq. Una volta, in tempi più inclini alla retorica più tronfia, ma meno ipocriti, Contini sarebbe stata una funzionaria dell'Impero. Oggi ci tocca immaginarla come una crocerossina in tuta mimetica. Questo è un mondo alla rovescia: nel nostro paese quelli della Croce Rossa si distinguono nel ruolo dei secondini nei CPT, dando il loro generoso contributo nella guerra interna, quella non dichiarata ma feroce contro i migranti poveri.

Ma, il nostro non è solo il paese della neolingua, quella che chiama la guerra pace e l'oppressione armata liberazione, il nostro è il paese degli eufemismi, dei raffinati bizantinismi, degli eloquenti distinguo. Delle missioni buone (quelle che si sono intraprese) e di quelle cattive (quelle che hanno promosso gli altri). Quindi per le anime belle del centrosinistra la guerra in Afganistan è giusta, quella in Iraq sbagliata. Con buona "pace eterna" delle migliaia di vittime di tanta umanità.

Un anno orsono milioni di persone scesero in piazza per dire no alla guerra. Senza se e senza ma. Senza aggettivi. Poi a poco a poco le piazze si sono vuotate: la sconfitta era evidente. 

Ad un anno dal quel marzo in tutto il mondo si preparano iniziative per il 20. Nel nostro paese, il paese della neolingua, dei distinguo e dei raffinati bizantinismi, chi ha bombardato la Jugoslavia e si è pronunciato per l'intervento in Afganistan e, visto il cambio di governo, si è astenuto sull'Iraq, si accinge a sfilare a fianco dei pacifisti. Alle elezioni mancano solo due mesi ed è opportuno che se la mano destra schiaccia il bottone per la guerra, la sinistra impugni una bandiera arcobaleno.

Ci auguriamo che le migliaia e migliaia di uomini e donne che scenderanno in piazza in questo secondo marzo di guerra vedano che quelle mani sono sporche di sangue. Quelle mani hanno ucciso gli operai della Zastava, hanno mutilato i bambini afgani, hanno affamato, torturato ed oppresso le popolazioni dell'Iraq.

In quest'anno di guerra l'azione antimilitarista degli anarchici non è mai venuta meno nel denunciare la follia bellicista e l'orrore statale: siamo stati davanti alle basi militari e alle caserme, nelle scuole dove propagandano l'ubbidienza, nelle piazze ammantate dal tricolore degli assassini e continueremo ad esserci. Questo 20 marzo non deve ridursi ad una cerimonia di propaganda elettorale ma deve essere la prima tappa di una campagna di ampio respiro, capace di radicamento territoriale e di iniziative di carattere nazionale come quella prevista per fine maggio a Livorno.

Gli anarchici continueranno a scendere in piazza. Senza se e senza ma. Per gridare, oggi come allora, che l'opposizione alla guerra è anche rifiuto dell'esercito, di tutti gli eserciti, delle frontiere e delle bandiere. In una parola è lotta per una società senza stati e senza padroni. Perché, guardati da vicino, Berlusconi e Fassino hanno la stessa faccia, la faccia feroce del potere.

Mortisia

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