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Umanità Nova, numero 8 del 7 marzo 2004, Anno 84

Il Muro dell'Apartheid strangola la West Bank
650 km di dolore 



Barrier, Fence, Wall: intorno a questi tre termini inglesi si gioca la battaglia mediatica ufficiale intorno ai 650 km di costruzione di blocchi di cemento, filo spinato, palificazione elettrica, dissuasori elettronici, videosorveglianza e polizia di frontiera (con uno spazio di sicurezza che va dai 60 ai 100 metri di larghezza) che dovrebbe garantire la tranquillità degli israeliani dalle infiltrazioni dei terroristi e dei kamikaze palestinesi. In verticale, l'intero territorio israeliano dal confine libanese al confine egiziano e sul mar Rosso è di oltre 200 km, circa la metà desertico (il Negev); la Linea verde che nella Cisgiordania tratteggiò i confini nell'armistizio del 1949, mediato dall'Onu, tra il neonato stato ebraico e gli arabi usciti sconfitti dalla prima guerra l'anno precedente, dividendo i territori è di circa 300 km in quanto segue un percorso zigzagato. Immaginatevi quindi il contorno geometrico frattale di un muro/barriera/recinto che duplica tale estensione incavandosi a dismisura rispetto alle distanze originarie in linea retta e alla distanza ufficiale dell'armistizio.

Come sempre, il controllo della lingua e della terminologia è un buon punto di partenza di analisi delle poste in palio, e per alcuni rappresenta già una mezza vittoria: definire l'apparato di controllo disciplinare e di reclusione e separazione una barriera, un recinto o un muro fa già una bella differenza semantica, specie se orecchiato a pochi anni dall'abbattimento di un altro muro famoso, quello di Berlino che si distendeva per poco più di un centinaio di km dentro una città.

L'idea della separazione esclusiva nasce non tanto come soluzione militare, bensì come opzione politica già balenata nel corso degli anni scorsi, anche prima della seconda Intifada (settembre 2000). Le infiltrazioni di individui armati - paramilitari o civili con intenzioni terroriste - si prevengono con controinfiltrazioni in campo nemico, secondo un gioco di intelligence delineato in qualsiasi manuale militare. Mentre prevenire la nascita di una entità politico-territoriale (stato nazionale) è l'obiettivo dichiarato di una linea di esclusione del nesso necessario popolazione-territorio che è alle fondamenta della sovranità di uno stato in fieri, quale dovrebbe e vorrebbe essere quello palestinese, del resto mai ammessa in nessun documento ufficiale dal governo israeliano - gli Accordi di Oslo infatti recitano "Autorità palestinese", solo in dichiarazioni saltuarie e in petizioni di principio di esponenti politici locali e internazionali si conviene sulla opportunità che anche i palestinesi abbiano diritto ad un loro stato nazionale.

Il Muro tratteggia sulla carta l'impossibilità della costruzione di un nesso tra terre e popolo, prefigurando tutt'al più una riedizione dei bantustan, dell'apartheid: già oggi colpisce quasi 300 mila palestinesi separandone famiglie, separandoli dalle terre che coltivano, sradicando migliaia di olivi che spesso costituiscono una scarna risorsa economica per intere famiglie di agricoltori, obbligando a percorsi tortuosi per recarsi al lavoro, a scuola, dai parenti. In taluni casi, taglia a metà poderi, strade, vie già tortuose, integrando le moderne strade percorribili solo da coloni e cittadini israeliani (dette, by-pass roads) ma interdette ai palestinesi che sono costretti a interminabili code ai check point o a giri tangenziali che allungano enormemente i tempi di percorrenza rapidi tra due punti. Infatti la linea di costruzione del muro non segue la Linea verde del 1949, ma nemmeno la linea di occupazione successiva allo status quo della guerra dei sei giorni nel 1967, mai riconosciuta in sede internazionale, bensì quella più opportuna per tutelare gli insediamenti illeciti ma costantemente promossi, finanziati e legalizzati da ogni governo israeliano (Labour o Likud in egual maniera) inglobandoli all'interno del territorio futuro israeliano per annessione di fatto, ma attualmente in Cisgiordania (o West Bank), ossia nei territori che gli Accordi di Oslo (morti e sepolti pur essendo favorevoli al 90% ad Israele) e qualunque opzione futura di nascita di uno stato palestinese, segnerebbero come il suo ovvio sostrato territoriale. In altri termini, il muro predetermina già oggi un esito futuro non più affidato al conflitto tra palestinesi e israeliani, tra Israele e il resto della comunità internazionale, tra la legittima aspirazione del popolo ebraico a vivere in pace a casa loro e l'altrettanto legittima aspirazione dei paria palestinesi (anche rispetto agli altri arabi) a vivere in pace a casa loro.

La legalità internazionale di tale mossa tutta politica (alla faccia di chi sostiene la scomparsa della politica statuale nell'era globale) in queste settimane viene messa in discussione dalla Corte internazionale di giustizia all'Aja, organismo nato dalla Carta dell'Onu che tuttavia non gode di grande prestigio in quanto ineffettuale nelle sue sentenze (celebre la condanna degli Usa per gli attacchi al Nicaragua negli anni '80, caso da manuale che si insegna nei corsi di diritto internazionale, ma che non ha spostato di una virgola il ruolo degli Usa in Centroamerica, né ha costretto il governo di zio Sam a riparare con ammende o altri modi ai danni inflitti e condannati ex post).

Tanto la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 che le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Patti internazionali del 1966 (ratificati dai governi israeliani e quindi integrati come limite alla loro condotta politica) vietano le deportazioni di persone dai territori occupati, vietano la preclusione di libertà di spostamento dentro confini nazionali, vietano l'impedimento a recarsi al lavoro, e tante altre belle cose che la politica dell'imposizione dello stato di fatto - caratteristica suprema della politica di forza contro cui gli anarchici vedono giusto a scagliarsi contro - relega nella soffitta di pie intenzioni per anime belle. La mobilitazione di tutta la comunità internazionale è pura ipocrisia se non si traduce nell'isolare e condannare con qualche atto politico il governo di Israele sia in sede Onu che in sede di Parlamento Europeo, sebbene a parole tutti dichiarino la loro contrarietà alla opportunità di erigere il muro. Sarebbe sufficiente tagliare i cordoni della borsa dei finanziamenti a fondo perduto…

Pacifisti locali poco possono contro le forze di repressione che, forse per la prima volta, aprono il fuoco contro propri cittadini ebraici che esprimono dissenso verso un atto governativo, mettendo a dura prova la democraticità blindata dello stato nucleare israeliano, foraggiato dalle vendite di armi e dalle fidejussioni garantite dal contribuente statunitense influenzato dalle lobby ebraiche oltreoceano.

Né vale il ricatto della shoah antisemita, sia per la banale considerazione che anche gli arabi palestinesi sono semiti, sia per l'altrettanto banale considerazione storica che responsabili della shoah non sono stati certamente gli arabi (né quelli fondamentalisti né quelli moderati) bensì gli europei illuminati che hanno trovato la facile scorciatoia di soddisfare i loro sensi atroci di colpa rigettando la patata bollente della costruzione dello stato ebraico in un luogo e su terre già abitate da altre popolazioni con le quali non cercare affatto sin da subito uno statuto binazionale condiviso per uno stato democratico rispettoso delle prerogative di cittadinanza democratica a cui nemmeno gli arabi erano abituati nei loro rispettivi regimi più o meno autocratici di monarchie regie o parlamentari. Magari sarebbero stati d'accordo a fare un salto qualitativo in avanti rispetto alla loro condizione feudale, ma nessuno glielo ha chiesto, in quanto lo scaricabarile tradiva una discriminazione culturale che rendeva equivalenti le popolazioni arabe dell'epoca a beduini senza cervello, buoni per essere deportati con mano drastica (la guerra del 1948, pur scatenata ingenuamente dagli arabi, è stata per loro una catastrofe con 800mila rifugiati all'estero tuttora mai ritornati). Unico caso di democrazia al mondo, la cittadinanza israeliana coincide con la cifra religiosa e culturale dell'ebraismo, al di qua dell'appartenenza nazionale di riferimento (tanto che ogni ebreo dappertutto nel mondo è potenzialmente cittadino israeliano se solo chiede di fare ritorno; grosso modo come il panserbismo di Milosevic nei Balcani, potente arma di destabilizzazione e di crimini umanitari). Gli estremisti di Eretz Isarel, d'altronde, sono espliciti a richiedere, in base ad una lettura fondamentalista e integralista della Bibbia, che lo stato ebraico deve ricoprire lo spazio geopolitico dal Mediterraneo a mar Moro, dal Tigri al mar Rosso, dando tale interpretazione simbolica ai due segni azzurri orizzontali che delimitano il bordo superiore e inferiore della bandiera ufficiale dello stato israeliano, con la stella di Davide a campeggiare sovrana nel mezzo…

Il muro sancisce nei fatti l'incancrenirsi di un conflitto che registra lo squilibrio di civiltà da cui si alimenta il terrore di stato e il controterrore integralista, in un gioco di rispecchiamento che stritola migliaia di innocenti che pagano con la vita i sogni di gloria e di potenza di cricche di speculatori e di élite politiche in cerca di potere.

Massimo Tessitore

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