Umanità Nova, numero 8 del 7 marzo 2004, Anno 84
Cominciamo con le cifre. Soltanto nei tre casi di insolvenza più famosi (bond argentini, Cirio e Parmalat) sono coinvolti quasi 600 mila risparmiatori (stima in difetto) per qualcosa come 20 miliardi di euro (altra stima in difetto). Cifre da capogiro, certo, che raccontano come stati e imprese truffano chi dà loro dei soldi. Ci sono poi altri casi "minori" (Giacomelli, Banca 121 e compagnia) che coinvolgono altre migliaia di risparmiatori. E se pensiamo ad altri default come Enron e WorldCom abbiamo un panorama del capitalismo, finanziario e non, sicuramente chiaro: il "parco buoi" (dizione antica nel gergo borsistico italiano e internazionale che indica gli investitori non istituzionali, ma la cosiddetta "gente semplice") va abbindolato e poi spennato. Sono le regole di un sistema fondato non solo sullo sfruttamento dei lavoratori, ma anche sugli allocchi che danno soldi ai padroni. Questi crack finanziari ci raccontano una realtà che va analizzata e compresa con attenzione da chi vuole modificare l'attuale assetto sociale. Le dichiarazioni altisonanti contro i padroni forse servono a poco se ci sono lavoratori e pensionati (cioè persone non ricche) che danno i loro soldi ai padroni, così come fino a qualche anno fa li davano allo stato, il cosiddetto "Bot people". Anche perché i 600 mila coinvolti nelle ultime crisi finanziarie sono soltanto un campione assurto all'onore (onere) delle cronache: quanti sono i risparmiatori che hanno sottoscritto una quota degli 86 miliardi di euro emessi (e in circolazione) dai maggiori gruppi italiani (Telecom, Fiat, Enel, Eni, Finmeccanica Impregilo, Alitalia e compagnia emittente)? Quanti aspettano il rimborso nell'arco di quest'anno dei 14 miliardi in scadenza emessi da società come Impregilo, Lucchini, Tiscali, Versace, Cartiere Burgo, Merloni Ariston e così via? Insomma, quasi 10 milioni di italiani sono coinvolti con i loro soldi nella finanza di coloro che detengono le leve del potere economico. Ma c'è un'altra schiera di italiani (almeno altrettanti) che non hanno risparmi ma sarebbero desiderosi di investirli in azioni e obbligazioni dei "padroni del vapore". E questo è un dato su cui riflettere.
La società capitalista ha saputo creare le condizioni psicosociali per condizionare credenze e aspettative delle persone che sono sottoposte a condizioni di sfruttamento sociale ed economico, ma sono al contempo beneficiarie di uno sfruttamento del Nord sul Sud del mondo. Privilegi grandi o piccoli, ma immensamente maggiori rispetto alle miserie di chi vive in Uganda, in Marocco, Haiti o altro luogo del cosiddetto terzo mondo. Tra questi privilegi c'è dunque anche la capacità di risparmiare, di avere soldi per evenienze future, una capacità che in questi ultimi due anni è stata erosa dal diminuito potere d'acquisto e dalla crescita dell'inflazione: quella reale, non quella di poco superiore al 2 per cento come racconta l'Istat e che verosimilmente si attesta tra il 9 e il 12 per cento. E poiché tenere i soldi in banca significa (visti i tassi concessi, a volte perfino vicini allo zero) farli progressivamente ridurre in termini reali, chi ha risparmi cerca forme di investimento. Un'operazione che coinvolge milioni di persone nella stragrande maggioranza lavoratori e pensionati e che di fatto è una domanda sociale diffusa. Ignorare questa circostanza è semplicemente ridicolo.
Qui si apre un discorso per troppo tempo trascurato. Per divenire pratica sociale, anche se molto minoritaria, una radicale alternativa necessita anche di luoghi di raccordo economici, di strumenti per la raccolta del risparmio (visto che di questo stiamo parlando). Anche i coraggiosi esperimenti di produzione e lavoro al di fuori della logica dominante sorti un po' ovunque dall'Europa alle Americhe hanno tra le altre difficoltà quella della gestione del necessario surplus economico da reinvestire nel ciclo produttivo. Ora questo surplus quando poi assume la forma monetaria o viene messo sotto il materasso o finisce in banca. Ma anche le banche etiche non sono lo strumento che risolve i problemi e tralascio in questa sede altre critiche sostanziali che si possono muovere a questi istituti.
Da qui l'ipotesi di riscoprire strumenti antichi con una visione moderna, cioè ripensare le casse mutue, le casse di resistenza che hanno accompagnato lo sviluppo nell'Ottocento e nel primo Novecento del movimento di emancipazione dei lavoratori. Non è un percorso semplice, ma va esplorato. Si tratta di recuperare quegli strumenti che l'avvento del fascismo spazzò via nella sua strategia di statalizzazione della società. Sarebbe un primo passo per autogestire almeno una parte della propria esistenza economica senza farsi fregare i risparmi dai vari industriali bancarottieri di turno. Un primo passo per creare istituzioni prefiguranti un assetto diverso della società. Soprattutto un primo passo per sganciare parti consistenti della società dall'economia dei "padroni del vapore". Queste casse, infatti, non dovrebbero solo gestire flussi finanziari in entrata per poi collocarli nelle imprese del "sistema", ma dovrebbero essere uno strumento per creare luoghi di economia alternativa. Non mi sembra poco.
Luciano Lanza