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Umanità Nova, numero 8 del 7 marzo 2004, Anno 84

Armiamoci e partite
I due fronti dell'Italia: Afganistan e Iraq



La decisione del governo italiano di prorogare e rifinanziare le missioni militari "di pace" all'estero ha ulteriormente proiettato l'Italia su due fronti di guerra - quali quelli afgano e iracheno - sempre più insidiosi e sempre meno prevedibili negli esiti.

L'aveva già ammesso il ministro della Difesa Martino che, quando il governo Usa avrebbe chiesto di far restare i soldati italiani in Iraq, "non si potrà dire di no" (Corriere della Sera, 15.10.03).
Neanche il centro-sinistra, evidentemente, è riuscito a farlo, venendo incontro nei fatti alle aspettative del governo che, per bocca del ministro Frattini, aveva auspicato "un voto che vada oltre i confini della maggioranza".

Secondo gli strateghi della guerra globale "contro il terrorismo", Afganistan e Iraq dovevano essere soltanto le prime due tappe, ma la trionfante macchina bellica Usa ha dovuto misurarsi con teatri e nemici ben più ostici di quanto era stato pianificato.

In Afganistan infatti la frammentazione dei poteri clanici, pienamente inseriti nel "grande gioco" per il controllo dell'area, e l'impraticabilità del territorio hanno reso fin dall'inizio impensabile un'occupazione militare in grado d'imporre una qualche pacificazione necessaria per realizzare i progetti collegati ai grandi gasdotti. Probabilmente a Washington si puntava su una maggiore coesione dell'Alleanza antitalebana del Nord credendo di poter sottomettere, con i dollari o con i bombardamenti, tutte le fazioni armate tribali, ma così non è stato.

In Afganistan, dove opera un contingente militare italiano nell'ambito della Forza di stabilizzazione ISAF a guida Nato, che i Democratici di Sinistra (compresi i "dissidenti" del correntone) ritengono una missione umanitaria, è del tutto evidente che i prossimi mesi primaverili vedranno un ulteriore destabilizzazione e nuove operazioni belliche, tanto che alcuni centri della Cia sono stati chiusi, dopo l'eliminazione di agenti segreti sia americani che afgani.

Nonostante ciò, i ministri della difesa dei 19 stati aderenti alla Nato hanno deciso a tavolino l'estensione della missione ISAF oltre l'area di Kabul, attraverso la creazione di altri 5 team operativi (PRT) comprendenti militari, tecnici di imprese, civili con compiti umanitari e operai afgani, destinati ad intervenire nelle diverse province in aggiunta alle 7 PRT già attive nella "ricostruzione" avviata da numerose ditte straniere. Una di queste unità sarà italiana e dovrebbe presto operare a Ghazni, provincia afgana ai confini col Pakistan ad altissimo rischio, dove alla fine di gennaio in un'esplosione sono morti sette soldati Usa. La natura "mista" di tali team rende l'impresa del tutto azzardata, per non dire scellerata, a meno che non si cerchi di replicare Nassirya.

Peraltro tutta l'impervia zona di confine, tra Afganistan e Pakistan, da sempre governata dalle tribù pashtun e roccaforte della guerriglia talebana, è ormai zona di guerra. In Belucistan si è infatti aperta una lotta senza quartiere per il controllo dell'area che vede confrontarsi reparti pakistani, reparti speciali Usa, formazioni talebane e combattenti "arabi" della rete di al Qaeda. L'alibi propagandistico dell'offensiva è la caccia a Bin Laden, ma proprio quest'ultimo potrebbe diventare la moneta di scambio con cui contrattare nuovi equilibri politici, dato che ormai appare chiaro che il governo Usa dovrà ritrovare un'intesa con gli ex-amici Talebani se non vuole abbandonare l'Afganistan con armi e bagagli, un'intesa che a suo tempo si ruppe non certo per ragioni legate ai diritti umani violati, al burqa o per il narcotraffico, ma in conseguenza dei divergenti interessi economici e per la protezione fornita dal mullah Omar a Bin Laden.

In Iraq invece le diverse resistenze armate, forti di diffusi sostegni popolari e di presumibili appoggi esterni, hanno inchiodato i piani imperialisti ad un presente fatto di attacchi, attentati, sabotaggi, scioperi e rivolte, anche dopo la spettacolare cattura di Saddam Hussein. Così - che piaccia o meno - quella guerra permanente che non sono riuscite a fermare le mobilitazioni pacifiste di milioni di persone, ha subito una battuta d'arresto in seguito alla guerriglia irachena costata ormai circa un migliaio di militari statunitensi, britannici, italiani, spagnoli, etc. Infatti, nonostante le ingentissime perdite tra gli iracheni delle forze di sicurezza e gli arruolati nell'esercito nazionale in via di ricostituzione, è innegabile che i costi umani tra le truppe d'occupazione hanno un peso senz'altro maggiore all'interno dei paesi i cui governi hanno accompagnato le proprie scelte interventiste con una campagna di disinformazione incentrata sulla superiorità morale e tecnologica dei "liberatori".

Secondo quanto dichiarato dal Ministro della difesa Martino nell'agosto dello scorso anno, l'operazione italiana "Antica Babilonia" avrebbe dovuto concludersi entro un anno, sostenendo che "A Nord, nella zona curda, il paese è praticamente pacificato. A Sud, tranne sporadici incidenti, si può dire lo stesso. Resta il problema di Baghdad e Tikrit (…) Ma è un panorama definito, si tratta di vincere queste ultime resistenze" (Repubblica 20.08.03).

L'avventatezza di quelle affermazioni è la realtà dell'oggi ad evidenziarla, mentre il governatore americano, Bremer ritiene "necessario che le truppe della coalizione, italiani compresi, rimangano in Iraq almeno fino al dicembre 2005" affidando a Barbara Contini, funzionario del ministero degli esteri italiano, l'incarico di coordinatore della provincia meridionale di Dhi Qar. Da parte sua il generale Sanchez, comandante delle truppe Usa in Iraq, ha previsto che i militari italiani vi resteranno sino al 2009.

Giusto il tempo necessario per far sì che tutti i parlamentari a turno, sia di governo che di opposizione, possano recarsi a far visita alle truppe là dove sventola il tricolore.

U.F.

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