Umanità Nova, numero 9 del 14 marzo 2004, Anno 84
L'occasione di un gemellaggio tra l'università dove lavoro e l'Università cattolica di Bukavu, capoluogo della regione del Sud-Kivu alle frontiere con il Rwanda, mi ha dato l'opportunità di un soggiorno nelle zone del genocidio del 1994 e della guerra civile congolese che è stata definita la I guerra mondiale africana perché ha visto il coinvolgimento attivo di otto stati del centroafrica.
Il Congo è un continente nel continente, quindi difficile dare una valutazione da una prospettiva parziale come una sua sola regione, per quanto martoriata dalla guerra che si è stabilizzata appena l'anno scorso (tra i 2 e i 3 milioni di morti negli ultimi otto anni) e che tuttora vive sottotraccia con qualche sussulto di tanto in tanto - quando si dice la tempestività del caso, proprio l'indomani della nostra partenza, un conflitto a fuoco a Bukavu provocava tre morti e grande apprensione nella popolazione che confida molto nel processo di pace e di smilitarizzazione delle guerriglie dei signorotti locali della guerra, spesso appoggiati da governi stranieri. La prospettiva per quadri militari e guerriglieri di essere integrati nell'esercito ufficiale della Repubblica Democratica del Congo, ma dislocati fuori dalle zone di provenienza per evitare consolidamenti di rendite di posizione, non è stata ancora accettata da tutti i soggetti coinvolti, anche perché il soldo della paga è nettamente inferiore a quanto percepito dalle truppe irregolari. Proprio in una di queste operazioni di smilitarizzazione, un ufficiale vicino al destituito governatore della zona si è rifiutato di sottostare all'ordine di un suo superiore e gli ha ucciso l'autista e due guardie del corpo, costringendo il malcapitato a rifugiarsi presso la missione di monitoraggio delle Nazioni Unite che sovrintendono il processo di pace mediato dal Sudafrica.
Gli appetiti sulle enormi ricchezze di quella parte del Congo motivano gli interessi affinché resti la destabilizzazione in atto che esautora ogni potere ufficiale dello stato, distante nella capitale Kinshasa, che non riesce a intercettare e controllare quanto avviene nel Sud-Kivu, a partire dal prelievo fiscale che giustifica la ragion d'essere di ogni stato. Dal metano che si trova nel lago Kivu che funge da frontiera con il Rwanda - uscito dal genocidio nel 1994 e quindi con alle spalle dieci anni di relativa stabilità che l'ha sollevato nelle infrastrutture materiali e nell'architettura civile del potere della pubblica amministrazione dipendente dall'uomo forte del regime - ai diamanti, dai minerali (l'80% del coltan necessario per la tecnologia dei nostri cellulari si trova nelle viscere del territorio congolese) all'acqua, dall'enorme patrimonio di biodiversità animale e vegetale (il primo in Africa, il secondo al mondo dopo l'Amazzonia) all'intreccio di etnie e lingue da salvaguardare, la RDC è potenzialmente uno dei paesi più ricchi del pianeta: inutile sottolineare le condizioni di miseria che caratterizzano la regione e la popolazione, costretta a sopravvivere in campagne dove un'agricoltura tropicale fatica a fornire cibo sufficiente per tutti a causa delle condizioni climatiche, mentre tecnologie agrarie e mediche ferme agli anni sessanta bloccano ogni tentativo di parare i colpi della malaria, dei parassiti, delle comuni e banali infezioni tifoidee contro cui la sanità dei paesi ricchi ha da tempo sviluppato vaccini che salvano la vita ai nostri bambini, il cui proibitivo costo per quelle nazioni nega tuttavia la medesima sorte ai loro bambini. L'unica industria della zona non è pertanto una industria farmaceutica, come potrebbe essere logico, bensì una interessante fabbrica di birra controllata dalla multinazionale olandese Heineken, che produce per il fabbisogno locale riutilizzando l'anidride carbonica prodotta nel ciclo per altre bevande gassate.
Le ondate di profughi dal vicino Rwanda sono per lo più rientrate, ad eccezione di bande di irregolari genocidari del '94 che da allora si sono nascosti nelle foreste da cui lanciano attacchi di tanto in tanto, minacciando i civili a loro vicini e depredando le risorse boschive. A ciò si aggiunga le cricche di speculatori che si ritagliano piste aeree all'interno di zone immediatamente a ridosso degli impianti minerari, e che al costo di qualche dollaro al giorno per operaio sottraggono ricchezza ai congolesi per portarla nei mercati europei (diamanti e altro) con la complicità tacita dei circuiti ufficiali dell'economia capitalistica regolare.
Gli sconvolgimenti recenti hanno travolto ogni forma di tessuto civile, che sopravvive intorno a istituzioni residuali forti, quali la chiesa che nel Sud-Kivu organizza quel minimo di istruzione e di informazione necessaria affinché una società civile possa dirsi tale, pagando anche duri prezzi per questo. Ovviamente non esistono le tradizionali differenze politiche tipiche della nostra cultura, per intenderci tra destra e sinistra, bensì siamo in presenza di un movimento di unificazione nazionale che mira a dare uno scheletro alla nazione con una formazione di coscienza civica, prima che politica, che lega l'appartenenza ad un territorio comune con l'identità congolese nazionale, sorvolando letteralmente sulle distinzioni etno-linguistiche troppo localistiche e particolaristiche per costruirci sopra anche un mosaico confederativo che possa reggere gli urti di potenze straniere troppo avide di mettere le mani sulle sue ricchezze.
E tuttavia, in questo quadro non certo idilliaco, ma per loro stessi speranzoso di una fuoriuscita dal lungo tunnel della guerra civile, è raro leggere nei volti pure affaticati e senza età ben definita delle donne e degli uomini incontrati, della città e della campagna, civili e intruppati in unità militari improbabili, con kalashnikov in spalla e maglietta di Ronaldo con bendana alla vascorossi in testa, è raro notare tristezza nei loro occhi, ma una estrema fierezza e dignità, di cui è emblema il portamento con cui il popolo in marcia, ogni mattina, dalla campagna ai mercati di città, reca in equilibrio perfezionato da secoli di allenamento quotidiano sulla testa, raccolti in un cesto o in un enorme fazzoletto, quel che può offrire un piccolo pezzo di terra con i propri frutti. Come dire, che la soluzione agli enormi problemi politici e poi economici del paese, di ogni paese verrebbe da dire, sta sempre e comunque nella ricchezza di umanità presente e mai spenta in ciascun essere umano, pur dipendente dalle condizioni materiali di esistenza, ma potenzialmente autonomo nelle idee dell'intelletto e nelle capacità fisiche che quei corpi esprimono nella loro vita quotidiana.
Massimo Tessitore