Umanità Nova, numero 10 del 21 marzo 2004, Anno 84
Che relazione esiste tra la riunione, tenuta all'inizio di Gennaio a Londra sotto gli auspici di un uomo di affari americano di origine siriana, di un sedicente "Consiglio Generale di Liberazione della Siria" i recenti attentati della guerriglia irachena contro i gruppi dirigenti dei due partiti egemoni tra la popolazione curda d'Iraq, il PDK e l'UPK? Entrambi questi avvenimenti discendono dal progetto israeliano-americano di riattivazione dell'oleodotto tra Kirkuk ed Haifa che dovrebbe portare il petrolio del nord del paese mediorientale direttamente alle piattaforme israeliane bypassando gli scali turchi e l'oleodotto che da Baghdad punta in territorio saudita verso gli scali del Golfo Persico.
Attorno al petrolio del nord dell'Iraq e al suo controllo si sta giocando la più importante tra le partite geopolitiche che l'Amministrazione USA, i suoi alleati come Israele e gli alleati in sofferenza come la Turchia stanno conducendo sulla pelle della popolazione irachena. Naturalmente la guerriglia irachena, sia nelle sue componenti nazionaliste sia in quelle islamiche partecipa a pieno titolo a questo gioco, come dimostra l'attentato del primo febbraio che ha causato 96 morti tra i quadri di primo piano dell'Unione Patriottica del Kurdistan e quelli del Partito Democratico del Kurdistan. Questi due partiti, espressione l'uno del clan Talebani, l'altro del clan Barzani, dopo essersi scontrati per un decennio per il controllo dell'area liberata dalla presenza degli iracheni nel nord del paese attorno alle città di Erbil e di Suleymania, si sono recentemente accordati per cogliere il frutto della loro alleanza con gli USA e ottenere l'indipendenza di fatto, all'interno di un Iraq federale, di un Kurdistan ben più grande di quello controllato fino ad adesso. All'interno di questo "Stato di fatto" rientrerebbero anche le città di Kirkuk e di Mosul, abitate anche da arabi e da turcomanni oggi oggetto di una feroce campagna di pulizia etnica condotta dalle ex formazioni partigiane kurde (i peshmerga).
La città di Kirkuk non è solo una delle tre principali città dell'Iraq, è anche una città che galleggia letteralmente su di un mare di petrolio e che fa da terminale per un oleodotto di importanza strategica che unirà il nord dell'Iraq al porto israeliano di Haifa attraversando la Giordania, e per un altro che attraversa la Siria e del quale è in progetto l'allungamento verso la stessa Haifa. Gli interessi che si muovono attorno alla costruzione delle condizioni per la riapertura di questa strada del petrolio sono evidenti: gli americani sono interessati a porre in mano al sicuro alleato israeliano la commercializzazione del petrolio del nord dell'Iraq consegnando al governo di Gerusalemme una carta fondamentale per ricattare l'Europa e costringerla al silenzio sulla situazione palestinese. Israele non può chiedere di meglio che poter giocare questa carta e beneficiare di entrate collegate all'ampliamento del porto di Haifa e, inoltre, indebolire ulteriormente i propri vicini arabi ponendosi come potenza regionale in grado di proporsi come capofila di un Mercato Comune mediorientale sottoposto all'egemonia americana. I dirigenti kurdi, da parte loro, si trovano a un passo dal coronamento del sogno di un Kurdistan di fatto indipendente e, inoltre, dotato del potenziale economico rappresentato dal petrolio dell'area. La pulizia etnica delle aree a popolazione mista sunnita e kurda risponde alla necessità di questa dirigenza di controllare in modo assoluto le risorse del sottosuolo senza interferenze del governo centrale iracheno né di quello turco.
L'Iraq che gli americani stanno preparando sarà, infatti, un simulacro di nazione, in cui l'economia sarà gestita direttamente dalle multinazionali Usa e dei paesi amici, e dai clan locali che si siano schierati con gli occupanti. I clan kurdi travestiti da partiti politici sono naturalmente in prima fila in questa corsa ad accaparrarsi lo sfruttamento delle risorse locali. Il dibattito sul federalismo iracheno, infatti, altro non è che la ricerca degli equilibri necessari per garantire ai clan kurdi, sciiti e sunniti filoamericani abbastanza potere locale in cambio di una struttura nazionale sostanzialmente inesistente. In questo quadro la formazione di una nazione kurda, composta da una popolazione musulmana ma non araba, con sufficienti ragioni di ostilità nei confronti di tutte le leadership arabe dell'area e anche di quella iraniana e di quella turca, non sarebbe che l'ennesimo episodio della classica strategia coloniale americana nell'area, consistente nella formazione di stati a guida ed egemonia non araba (o araba non musulmana) all'interno di un territorio ad immensa maggioranza araba e musulmana sunnita.
Questi stati hanno sempre svolto il ruolo di alleati fedeli e sicuri per Washington anche perché isolati nell'area e circondati da stati e popolazioni ostili e, quindi, bisognosi dell'aiuto esterno per sopravvivere e imporsi all'interno dello spazio mediorientale. La stessa strategia è stata poi utilizzata dagli Stati Uniti anche all'interno degli stati a guida arabo musulmana, con la promozione a classe dominante di ristrette élite strettamente legate con la finanza americana e scarsamente riconosciute all'interno dei propri paesi.
In questo modo queste èlite sono state legate principalmente ai propri protettori esterni senza la possibilità di utilizzare la propria popolazione per contrapporsi ai disegni di Washington. Oggi, sulla scorta della progressiva crescita della tensione tra gli Stati Uniti e le classi dominanti semifeudali del Golfo Persico, sembra sia venuta l'ora per un ulteriore spezzettamento del territorio tra stati più piccoli e più dipendenti da Washington e con la creazione di un Kurdistan che risponda alla doppia esigenza di costituire un cuneo non arabo nell'area e un sicuro appoggio alla strategia israeliana di egemonia locale.
Gli ostacoli alla realizzazione di un tale piano, però, sono molti: sul piano interno non solo la guerriglia islamica e quella ex baathista, ma anche i notabili sciiti sia moderati che radicali che vedono l'indipendenza del Kurdistan in modo negativo perché, consapevoli di avere i numeri e le carte in regola per governare un Iraq in cui il governo abbia un minimo di legittimazione elettorale, non vogliono perdere il controllo dei ricchi giacimenti petroliferi del nord né ospitare all'interno di un Iraq federale un Kurdistan che abbia la funzione di base militare e di intelligence israeliana.
Sul piano internazionale il piano di Washington e Tel Aviv trova due oppositori principali: Turchia e Siria con l'appoggio sottobanco di sauditi ed egiziani. Gli ex alleati di ferro turchi sono contrari per ragioni interne alla nascita di un Kurdistan autonomo e di fatto indipendente ai propri confini e sono perfettamente consci che l'alleanza tra Israele e i curdi ribalta quella formalmente ancora in vigore tra Ankara e Tel Aviv, espellendo la prima dai giochi mediorientali riferiti sia alla commercializzazione del petrolio che al traffico di droga, armi ed esseri umani.
Dopo tre anni di intesa molto stretta tra turchi ed israeliani sul piano militare e su quello del controllo geopolitico dell'area mediorientale, l'orientamento del gabinetto Sharon è stato quello di sganciarsi sempre di più da Ankara per perseguire una politica di infiltrazione diretta all'interno dei paesi arabi al seguito delle truppe americane, e di alleanza con quelle componenti etniche come i curdi in Iraq che si pongono in opposizione alla maggioranza del paese. In questo quadro la Turchia ha perso il ruolo strategico che rivestiva nel progetto Clinton-Peres di stabilizzazione del Medio Oriente ed è stata marginalizzata dalle decisioni che contano sul futuro della regione. Non a caso il Parlamento e il governo di Ankara si sono opposti all'invasione dell'Iraq e tuttora rifiutano di inviare truppe turche nel vicino paese al contrario di quanto fatto in Afganistan dove i generali turchi hanno anche assunto funzioni di comando relativamente alla missione NATO di occupazione del paese asiatico.
La freddezza con Washington e con Tel Aviv fa da contraltare al progressivo riavvicinamento con la Siria con la quale nel 1999 la Turchia aveva sfiorato la guerra sulla questione dell'appoggio di Damasco al PKK, il partito di Ocalan, e su quella ancora più importante dello sfruttamento delle risorse idriche del Tigri e dell'Eufrate, le cui sorgenti si trovano in Turchia ma dai quali dipendono Iraq e Siria per le loro necessità, minacciate dai progetti di costruzione di dighe messi in cantiere da Ankara. Oggi il rischio concreto che corre il paese eurasiatico è quello di trovarsi l'intero confine meridionale monitorato da governi insieme ostili ad Ankara e controllati da Tel Aviv e Washington. La conseguenza di un simile scenario sarebbe il pesante ridimensionamento delle speranze di Ankara di riuscire a giocare un ruolo di potenza regionale nel Medio Oriente. Questa eventualità è vista con malcelato panico dal governo turco e dalle sue istituzioni militari (i veri padroni del paese). Oltre alla riapertura del dialogo con la Siria, paese candidato a essere il prossimo a cadere sotto il maglio israeliano-americano, il mutamento dell'atteggiamento americano verso la Turchia ha anche prodotto l'avvio del disgelo da parte di quest'ultima verso l'Unione Europea, culminato con il viaggio di Prodi nel paese eurasiatico, durante il quale i turchi si sono impegnati a rendere operative le riforme riguardanti la cancellazione della tortura e della pena di morte, il trattamento dei prigionieri nelle carceri e il diritto dei curdi a parlare liberamente la loro lingua madre.
Per quanto riguarda la Siria, il governo di Assad il giovane si trova oggi in un'impasse drammatica con il paese stretto tra Israele la cui rinnovata aggressività è stata dimostrata dal raid in territorio siriano del 2003 e l'esercito angloamericano di occupazione dell'Iraq. Il governo di Damasco è pienamente conscio della propria debolezza e moltiplica i segnali di disponibilità alla trattativa con Tel Aviv. Il recente scambio di prigionieri tra Israele e gli Hezbolaah libanesi, storicamente protetti dai siriani e dagli iraniani, segnala che il governo siriano teme fortemente di fare la stessa fine di quello iracheno. Israele nei confronti della Siria mantiene una dimensione di forte aggressività; infatti alterna aperture dallo scarso valore pratico ma dalla forte risonanza mediatica come l'invito a Gerusalemme rivolto dal presidente israeliano Katzev a quello siriano, con molto più concreti segnali di rafforzamento dell'apparato militare rivolto verso il paese vicino, la minaccia di nuovi raid e i periodici sconfinamenti nel sud del Libano. L'impressione di fondo è che Israele non sia per nulla disposto a restituire le alture del Golan occupate nel 1967 in cambio della pace, e che ritenga necessario un cambio di regime nel paese vicino per ottenere il controllo delle vie della commercializzazione del petrolio e di quelle della gestione dell'acqua, bene la cui importanza nell'area è probabilmente superiore a quella dello stesso oro nero. L'attuale resistenza irachena all'occupazione con la sua coda di centinaia di morti tra i soldati americani e la sempre più aperta opposizione in America di settori significativi delle stesse classi dominanti tutt'altro che convinti che il coinvolgimento diretto USA in Medio Oriente non sia la migliore soluzione della crisi di egemonia di Washington sono i motivi che hanno permesso a Damasco di guadagnare tempo finora e di cercare in Francia e Germania le sponde europee necessarie per cercare di sopravvivere alla tremenda morsa israelo-americana. Damasco per evitare di fare la fine di Baghdad sta moltiplicando i segnali di allineamento agli USA ma questo potrebbe non bastare al regime siriano davanti ad un'ostilità americana e un'aggressività israeliana in palese crescita.
Giacomo Catrame