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Umanità Nova, numero 10 del 21 marzo 2004, Anno 84

Violenza/non violenza
La febbre terzana



"Noi, non siamo anarchici, non abbiamo certo del potere una visione satanica"
Fausto Bertinotti, intervento al seminario di Venezia su "Comunismo e nonviolenza" pubblicato su Liberazione del 3 marzo 2004


Il ricorrente dibattito interno alla sinistra politica, con riflessi anche nel "movimento dei movimenti", sull'annosa questione violenza/non-violenza ha ormai assunto le sembianze di una di quelle affezioni febbrili con periodica recrudescenza patologica. Ogni volta sembrerebbe di esserne usciti fuori più o meno guariti ed avendo acquisito i necessari antidoti, invece poco tempo dopo si scopre che si è soggetti a nuove "ricadute".

Identica appare la sintomatologia e si ricomincia da zero anche stavolta, con le prese di posizione scatenanti del sociologo Marco Revelli e del segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti. La loro tesi di fondo sottolinea la necessità di una svolta teorica nella sinistra che se vuole essere davvero moderna, dopo aver definitivamente chiuso col proprio passato e con l'antagonismo di classe di antica memoria, dovrebbe assumere - senza se e senza ma - la non-violenza come fondamento strategico.

Tale convinzione è stata motivata dal voler sancire un distacco etico totale da un sistema di dominio intrinsecamente violento nello stabilire i rapporti sociali, ma anche dal presunto superamento di ogni prospettiva rivoluzionaria, non solo così come è stata pensata ed attuata nei secoli scorsi ma anche nel percorso di liberazione in divenire. Come succede in certi casi, tra le tante argomentazioni portate a sostegno di questa analisi non è difficile rintracciare pure elementi di critica interessanti, ma ancora una volta la sindrome si è subito acutizzata, assumendo il consueto tono ideologico tendente a colpevolizzare o ridicolizzare ogni obiezione, mentre la stampa borghese banalizzava ulteriormente il dibattito riducendolo ad una discussione su se sia più o meno opportuno andare ad un corteo a mani nude, dotati di casco o in compagnia di una robusta asta di bandiera.

Che la nostra vita sia costantemente sottoposta a violenze inaudite e insensate risponde a verità: la violenza di vivere secondo regole imposte, la violenza del lavoro salariato, la violenza coercitiva esercitata da chi ci governa, la violenza delle istituzioni che viola ogni spazio individuale, la violenza della merce dietro vetrine insultanti il bisogno, la violenza morale legata al fatto di sapere che nel mondo milioni di persone sono continuamente vittime di un sistema economico iniquo e spietato…

Per questo, così come troviamo comprensibile la ribellione di chi non riesce a subire la pressione insopportabile di questa violenza prodotta dalla normalità dello sfruttamento e dal potere costituito, non abbiamo difficoltà a capire la scelta radicale di quanti avvertono la necessità di un rifiuto totale della violenza, anche quando questa avrebbe mille ragioni per manifestarsi come contro-violenza.

Quest'ultima opzione ha infatti innegabilmente in sé la negazione assoluta della "legittimità" di qualsiasi violenza, compresa quella degli oppressi; da un lato può forse apparire come una sorta di disarmo unilaterale, dall'altro però mette senz'altro a nudo l'infinita ipocrisia di aggressioni militari "di pace", affermando piuttosto che per evitare le guerre è necessario semplicemente non farle, neanche in nome dei più nobili ideali.

È una radicalità non-violenta che, non avendo niente a che vedere con il concetto di legalità, sappiamo rispettare anche quando non la condividiamo; alla base di essa c'è lo stesso disgusto per la sopraffazione che anima il nostro essere anti-violenti.
Tutto questo però appare poco convincente ed ancor meno limpido quando non vengono tirate le dovute conseguenze di simili ragionamenti e sentimenti. Lo Stato, per sua natura, è il detentore del monopolio della violenza e, sulla base di questa logica che la legge sancisce, le guerre diventano legittime persino quando non vengono dichiarate, così come stiamo assistendo in Iraq, in Afganistan e in cento altri conflitti dimenticati in atto.

Quindi, l'essere coerentemente non-violenti significherebbe in primo luogo mettere in discussione l'esistenza dello Stato, cosa che i politici di professione e gli intellettuali democratici si guardano bene anche solo dal prendere in considerazione, sempre pronti invece a paventare il pericolo dell'anarchia.

Gli anarchici, si sa, sono dei sognatori, ma vorremmo proprio sapere come si può immaginare uno Stato non-violento o un capitalismo senza guerre e di spirito caritatevole.

Alle spalle abbiamo una storia umana sanguinante che ci avverte che le più immani violenze del secolo passato (guerre imperialiste, genocidi coloniali, campi di sterminio, pulizie etniche, sedie elettriche, etc.) sono state pianificate, ordinate e perpetrate da apparati statali, sia dittatoriali che democratici, tanto da delineare la continuità di un effettivo terrorismo di Stato.

Numerosi aderenti ed elettori del partito di Bertinotti, hanno criticato "da sinistra" la proposta del loro segretario, rivendicando nel nome di Guevara e della Resistenza il ricorso alla violenza, anche armata, da parte dei popoli oppressi, ma tale affermazione "guerrigliera" stride non poco con l'adesione ad un partito parlamentare, inserito a pieno titolo nel contesto democratico, che usufruisce di finanziamenti pubblici, vota leggi e gode della protezione dello Stato.

All'interno del "movimento" le critiche più serrate sono venute dall'area dei/delle Disobbedienti (autentico partito che non vuole apparire come tale) i quali, spostando in avanti i confini della non-violenza attiva, hanno ovviamente sostenuto l'alternativa della prassi disobbediente, pur se anch'essi sono caduti presto in un altro dogmatismo ideologico incentrato sulla rottura con le pratiche sovversive del nostro recente passato ed ossessionato dal voler paradossalmente dimostrare la legittimità della resistenza, quale "il più sacro dei diritti dei cittadini".

In tale visione, che esclude anch'essa a priori l'ipotesi rivoluzionaria, il conflitto diviene il luogo di confronto tra "moltitudini" e comando imperiale, in una sorta di interminabile partita a scacchi che non prevede mai lo scacco matto al re.

A sostegno delle proprie teorizzazioni, i Disobbedienti amano citare l'esperienza neo-zapatista del Chiapas che comunque, quando nel '94 s'impose all'attenzione mondiale, debuttò con un'insurrezione armata vera e propria e soltanto in seguito ha saputo con intelligenza utilizzare pratiche diverse di lotta e liberazione, cercando di non giocare sulle scacchiere che il governo avrebbe voluto imporre loro.

Anti
 


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