Umanità Nova, numero 11 del 28 marzo 2004, Anno 84
Nel 1988 le prime pagine di tutti i giornali registrarono uno dei tanti scandali della cosiddetta prima repubblica, quello delle "carceri d'oro", che vide coinvolti in un giro di tangenti diversi ministri in carica e vari portaborse dei partiti di governo, tutti impegnati a lucrare sulla costruzione di nuovi istituti di pena. Chissà se a qualcuno sarà venuto in mente quell'episodio leggendo il recente annuncio del Ministro della Giustizia a proposito dell'ennesimo piano di edilizia carceraria che prevede la costruzione di due dozzine di nuove carceri con uno stanziamento equivalente a tremila miliardi di lire.
È da diversi anni che l'ingombrante problema carceri viene trattato principalmente come fosse un problema di edilizia popolare che possa essere risolto, di volta in volta, con la costruzione di nuovi penitenziari per diminuire l'affollamento esistente o con l'affidamento delle galere a ditte private in grado di garantire una migliore gestione economica del settore.
Già nel luglio del 2001, il Governo Amato, tramite l'allora
ministro della giustizia Piero Fassino, annunciava un "pacchetto di
misure strutturali per la riforma delle carceri italiane" che avrebbe
comportato "un impegno di spesa di oltre 3.000 miliardi" (toh!) dei
quali "1.060 miliardi saranno destinati all'edilizia penitenziaria
(nuove carceri, ristrutturazione dei vecchi penitenziari, utilizzo di
caserme dismesse)" [1]
Il progetto forcaiolo di "sinistra" non fece in tempo ad andare in
porto ma venne ripreso pari-pari dal successivo Governo che nel 2003 ha
annunciato trionfalmente la costituzione della "Dike Aedifica SpA", una
società nata allo scopo "di contribuire allo sviluppo del
sistema carcerario utilizzando l'edilizia penitenziaria storica quale
leva di finanziamento per le infrastrutture carcerarie moderne,
riducendo così anche gli oneri a carico della finanza pubblica."
[2]
Questa politica apre anche un discreto campo di affari legato alla
dismissione delle vecchie strutture carcerarie, collocate di solito in
zone appetibili dal punto di vista edilizio, che verrebbero cedute in
cambio della costruzione di nuove strutture in aree meno "interessanti"
per il mercato, magari le solite periferie, degradati dormitori per chi
non può permettersi una abitazione in città o per chi
è stato espulso, per ragioni economiche, dal centro storico.
Il Ministro della Giustizia in carica ha chiaramente espresso quale sia
la sua idea parlando a proposito del carcere milanese: "Si tratta (...)
di recuperare una delle aree centrali ormai strategica per lo sviluppo
della città."[3]
Ma ridurre il problema carceri ad una mera questione di speculazione
edilizia significa, alla fine, cedere alla logica di chi ritiene
l'esistenza delle istituzioni totali indispensabile e che si preoccupa
solo di rendere più gestibile ed economicamente appetibile
l'inferno dei vivi chiamato galera.
I dati relativi alla fine dello scorso anno [4], parlavano di 54.237
reclusi (di cui 17.795 sono stranieri), dei quali solo il 61%
condannati definitivamente, e di condizioni di carcerazione sempre
più intollerabili per reclusi accusati o condannati per reati
legati principalmente all'iniquità del sistema capitalistico e
statale: sono solo il 14,7% i prigionieri per reati contro la persona
mentre sono il 30,7% quelli per reati contro il patrimonio.
Molti sono i segnali che inducono a ritenere che nei prossimi anni la
popolazione carceraria è destinata ad aumentare, e non tanto
perché aumentino i "delinquenti" ma soprattutto perché i
cambiamenti legislativi produrranno nuovi reati, si pensi solo alla
recente legge sulle cosiddette droghe oppure a quella che prevede la
detenzione degli immigrati "clandestini".
E questa è una tendenza non solo italiana: negli Usa (dove il numero dei detenuti è triplicato in 20 anni) è ormai invalso il sistema del "terzo colpo e sei fuori", vale a dire che anche per reati minimi ma ripetuti tre volte si rischia addirittura l'ergastolo, e in Francia l'abbassamento dell'età della responsabilità penale provocherà ovviamente un aumento del numero dei detenuti.
Detenuti che non sono più solo il risultato di un sistema sociale basato sullo sfruttamento o un comodo espediente per giustificare l'esistenza di un apparato di controllo e di repressione sempre più mastodontico e sempre più invasivo a tutti i livelli della società, ma anche un interessante occasione di business.
Quello nel quale viviamo è un sistema sociale che non riesce a fare a meno del carcere, che consente e giustifica l'esistenza di luoghi separati dove la distruzione della personalità, l'umiliazione e la violenza sono le quotidiane condizioni di vita e che adesso è intenzionato anche a trarre da queste isole della disperazione un non indifferente profitto economico.
Un sistema che nessuna riforma sarà mai in grado di correggere, un sistema che va necessariamente rovesciato dalle fondamenta.
Pepsy
Note