Umanità Nova, numero 12 del 4 aprile 2004, Anno 84
"Re Alessandro cerca e cerca l'Acqua della vita,
fra i monti si aggira giorno e notte vagando,
ma di quel calice non riuscì a bere un sorso nemmeno"
(Antico poema pangiabi)
Dietro la propaganda, la censura e la disinformazione sistematica, la
gravità di quanto sta avvenendo in Afganistan è ben
chiara nelle stanze del potere politico ed economico mondiale. Basta
saper leggere appena tra le righe del documento sull'Afghanistan
approvato dai ministri degli esteri e della difesa dell'Unione Europea
lo scorso 17 novembre, per intuirlo. In tale documento, in particolare,
il Consiglio dell'UE ammetteva di essere "preoccupato per le condizioni
di sicurezza ed ha sottolineato l'importanza di intensificare gli
sforzi per migliorarle, in modo da non ostacolare gli ulteriori
progressi nella ristrutturazione economica e nella costruzione di un
Afganistan democratico e pacifico", confermava il suo sostegno alle
autorità afgane affinché possano "esercitare poteri
effettivi su tutto il territorio", rammentava l'importanza del
"processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione" ed esprimeva
"seria preoccupazione per la coltivazione del papavero" aumentata
dell'8% rispetto all'anno precedente.
Espressioni elegantemente diplomatiche per nascondere la
verità dei fatti: in Afghanistan non s'intravede ombra di
pacificazione, il governo Karzai conta poco più di niente
così come la nuova Costituzione, mentre continuano ad
imperversare i poteri armati tribali e la produzione di oppio è
ripresa alla grande.
Gli avvenimenti di queste ultime settimane rendono ancora più
disastroso il bilancio di Enduring Freedom, ad oltre due anni
dall'aggressione Usa dichiarata in nome della liberazione dal regime
talebano.
Nella zona a cavallo del confine col Pakistan, area montuosa ove vige il potere autonomo tribale pashtun e dove è forte la presenza talebana, tanto che i governi di Kabul e Islamabad possono esercitare solo un'autorità virtuale, da alcune settimane divampa una guerra prevista ma di cui ben raramente troviamo notizia. Quando i media ne parlano è per inscenare improbabili cacce a Osama Bin Laden e ai suoi luogotenenti; invece giungono notizie riguardanti rastrellamenti e attacchi delle forze speciali Usa, di bombardamenti con le devastanti fortezze B52, di incursioni con elicotteri Apache contro l'enclave dei mujahaeddin, a spese naturalmente anche e soprattutto della popolazione civile abitante da entrambe le parti della frontiera. Alle operazioni partecipano anche reparti del neonato esercito nazionale afgano e di quello pakistano.
Del tutto inattendibili appaiono le cifre delle perdite umane di
tutte le parti in conflitto, sicuramente ben più elevate delle
centinaia ufficialmente dichiarate, soprattutto tra i civili; d'altra
parte dopo un sbrigativa inchiesta interna è stata resa nota
l'autoassoluzione Usa per la strage di bambini afgani del dicembre
scorso.
Le cose vanno male però anche nella provincia di Herat
confinante con l'Iran, teatro di feroci scontri tra i signori della
guerra; in tali scontri, combattuti ricorrendo anche all'artiglieria e
ai carri armati, è rimasto ucciso anche il ministro
dell'Aviazione civile del governo di Kabul, Mirwais Sadiq Khan.
È almeno il terzo ministro del governo di Karzai ad essere
assassinato, pur volendo credere che il ministro delle Risorse
petrolifere sia perito in un incidente aereo qualsiasi.
L'uccisione di Sadiq dimostra ulteriormente l'estrema precarietà
esistente tra il governo ad interim sotto protezione Usa e i vari
poteri tribali; Mirwais Sadiq infatti era figlio del potente
governatore tagiko Ismail Khan, vicino al regime iraniano, forte di un
esercito di circa 25.000 armati e soprattutto di milioni di dollari
derivanti dai traffici frontalieri con l'Iran. Responsabile
dell'uccisione risulta infatti essere tale Zahir Nayed Zada, neo
comandante militare delle truppe governative nella stessa provincia di
Herat.
In questo contesto come è noto, con l'avallo dell'Onu (Risoluzione 1510), la missione militare ISAF, a guida Nato, sta proiettandosi fuori dall'area di Kabul attraverso i cosiddetti Provincial Reconstruction Team, sotto coordinamento Usa ma con personale civile e militare dei diversi Stati presenti in Afghanistan, tra cui l'Italia con la sua "missione di pace".
Facile intravedere calici non meno amari di quelli bevuti da Alessandro Magno.
U.F.