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Umanità Nova, numero 12 del 4 aprile 2004, Anno 84

Guerra e disinformazione
Un matrimonio riuscito



A morire in guerra non sono solo i civili inermi o i mercenari di stato, ci sono anche altri che pagano un discreto tributo alla follia militarista: David Kelly morto a luglio [1] e James Forlong [2] anche lui suicida nell'ottobre 2003 sono due delle vittime di un'arma molto particolare, quella della disinformazione.

Le tecniche di disinformazione non sono utilizzate esclusivamente durante le guerre, ma è sicuramente durante i conflitti armati che queste tattiche comunicative mostrano il meglio (il peggio) di se stesse e, fin dall'antichità, in battaglia si sono utilizzati gli strumenti dell'inganno e della falsità: dal Cavallo di Troia alle armi di distruzione di massa irachene è tutto un lungo susseguirsi di bugie e di manipolazione della verità al servizio del potere e dei suoi eserciti.

Nella "comunicazione in tempo di guerra" il potere mette in atto una serie di misure che, schematicamente, si possono ricondurre tutte ad alcune categorie fondamentali:

a) quelle che riguardano il controllo diretto dell'informazione sul campo delle operazioni. Questo può essere perseguito sia attraverso "vecchi" sistemi (tipo la censura) che attraverso modalità più "moderne", come l'invenzione dei giornalisti "embedded" che vengono arruolati, con tanto di training paramilitare, al seguito delle truppe e che sono ovviamente sottoposti ad un controllo ed una pressione psicologica stringenti. Questo controllo passa anche, molto più prosaicamente, attraverso l'attacco diretto alle infrastrutture della comunicazione nemica, come insegnano gli ordigni lanciati sempre più spesso contro gli edifici che ospitano le redazioni dei mass media.

b) quelle relative al controllo diretto ed indiretto del "fronte interno". Tutti i poteri impegnati in qualche avventura bellica hanno la necessità di controllare e di orientare l'informazione che circola nel proprio paese. Questo controllo può avvenire in modo più o meno violento e più o meno visibile a seconda del tipo di regime in carica e diventa tanto più importante e centrale quanto più sono diffusi i mezzi di comunicazione di massa.

c) quelle messe in atto attraverso un lavoro di intelligence. I servizi segreti hanno tutti una o più sezioni specializzate nella "guerra psicologica" che, almeno in teoria, dovrebbero avere come area di intervento il territorio nemico ma che, in realtà, svolgono il loro lavoro di manipolazione e di intossicazione dell'informazione anche tra la popolazione "amica".

L'errore nel quale si potrebbe cadere è quello di credere che le tecniche di disinformazione siano prerogativa esclusiva di una singola entità o superpotenza ma la verità è ben diversa in quanto l'avvelenamento dell'informazione è una vera e propria "scienza" che tutti gli Stati applicano costantemente ed in particolar modo quando sono maggiormente coinvolti in una controversia interna [3] o internazionale.

Sicuramente è più facile denunciare e smontare episodi di intossicazione prodotti localmente mentre risulta difficile o quasi impossibile fare lo stesso per quelli che coinvolgono paesi lontani e magari in stato di guerra, ma questo non significa che la manipolazione dell'informazione sia sempre e solo a senso unico. Ma, troppo spesso, anche chi pensa di fare una informazione "diversa" non tiene conto di questa lapalassiana verità e paradossalmente è più facile trovare posizioni del genere all'interno della cerchia degli addetti ai lavori [4].

Allo scoppio della Seconda Guerra del Golfo, l'associazione "Peacelink", in collaborazione con altre realtà che lavorano nel campo dell'informazione ha dato vita a "Mediawatch" [5], osservatorio sull'informazione di guerra, che raccoglie una serie di segnalazioni di bufale, menzogne e cialtronerie varie prodotte, in Italia ed all'estero. Si va dallo scoop di "Panorama" che rivela dove sono nascoste le armi di Saddam agli errori di traduzione che travisano le notizie, dalla censura delle opinioni e delle immagini scomode ai veri e propri falsi.
Tutte segnalazioni interessanti e sintomatiche dell'uso dell'informazione in tempo di guerra, ma che hanno il limite di tenere pochissimo in conto il fatto che le medesime tecniche sono state messe in atto anche dalla dittatura irachena che notoriamente non ha mai ricoperto un posto di rilievo tra i paladini della libertà di comunicazione.

A fare disinformazione infatti non è solo la CNN (o la RAI) ma sicuramente anche i media arabi, che, in quanto a notizie manipolate hanno poco da imparare dai network occidentali. Per esempio sono pochi oggi quelli che sembrano ricordare i comunicati televisivi di Mohammed Saeed al-Sahaf, ministro dell'informazione del regime di Saddam Hussein che continuava, come previsto dal suo ruolo, a raccontare frottole sulle vittorie dell'esercito del rais mentre le truppe Usa erano già per le strade di Baghdad.
Esiste una oggettiva difficoltà, dovuta soprattutto alla lingua, nell'analisi della disinformazione proveniente da fonti del genere, nonostante esistano anche dossier, prodotti soprattutto dall'amministrazione Usa [6] e dedicati alle falsità diffuse dai media "nemici". Ovviamente la fonte è alquanto sospetta ma questo non vuol dire che sia sempre e totalmente inattendibile, anche perché fare disinformazione consiste anche nel far passare per falsa una notizia che invece è vera.

Uno degli obiettivi principali degli esperti della comunicazione di guerra è quello di controllare la diffusione delle notizie già alla fonte ed, eventualmente, di produrne - direttamente o indirettamente - anche di false o comunque manipolate e non è raro che siano proprio queste ultime a contribuire in misura considerevole al plagio della famigerata pubblica opinione. Per ottenere questo risultato non si usano solo le veline degli stati maggiori ma si sfruttano i normali canali dei mass-media, non è infatti raro che militari statunitensi esperti di "psychological operation" lavorino direttamente all'interno di network privati [7].

Un altro obiettivo abituale degli "intossicatori" sono gli apparati di intelligence nemici che sono costretti, proprio dalla natura del loro lavoro, a dover prestare attenzione a qualsiasi tipo di informazione venga diffusa a prescindere dalla sua attendibilità. E, fin troppo spesso, le informazioni diffuse dalle due parti in lotta non sono altro che il risultato della guerra particolare dei rispettivi servizi segreti.

Questa realtà, dove l'informazione viene sostituita continuamente dalla propaganda e dalla manipolazione più o meno sofisticata, porta ad una sola conclusione che nel suo estremismo apparente ha però il pregio di essere chiara e scarsamente fraintendibile: non credere mai, per partito preso ed in prima istanza, a tutto quello che passa sui media ufficiali e non solo su quelli. Questo è però solo un modo per difendersi e per mantenere un minimo di indipendenza di giudizio e di capacità critica. In casi del genere l'unica possibilità che resta è quella di credere solo ai propri occhi, anche se a volte nemmeno questo garantisce molto, oppure a testimoni diretti dei quali si conosca personalmente l'attendibilità.

L'alternativa a questa pessimistica conclusione può essere cercata solo nella costruzione di reti di comunicazione ed informazione realmente indipendenti ed autogestite che riescano, pur con tutti i limiti possibili, a creare un circuito di circolazione delle notizie autonomo da quello dei canali ufficiali


Pepsy




Note

[1] David Kelly restò stritolato in un classico episodio di intossicazione dell'informazione, riguardante il presunto arsenale iracheno, che vide coinvolti a vari livelli il governo britannico ed i media. Per una ricostruzione degli avvenimenti si vedano i giornali dell'estate 2003, oppure
http://edition.cnn.com/2004/WORLD/europe/01/25/kelly.timeline/

[2] James Forlong, il giornalista di Sky che durante l'attacco all'Iraq aveva inventato un falso lancio di un missile da una nave britannica. La notizia della sua morte non ha meritato più che un trafiletto sui giornali. Si veda ad esempio
http://www.rainews24.it/Notizia.asp?NewsID=42079

[3] Si pensi, solo come caso più recente, al tentativo del Governo spagnolo di "orientare" l'informazione giornalistica a favore di una responsabilità di ETA nella strage di Madrid dell'11 marzo scorso.

[4] Si veda, ad esempio, l'interessante analisi "Tutte le vie della disinformazione" di Vojko Bratina, relativa al conflitto nella ex-jugoslavia, disponibile qui
http://www.sissa.it/ilas/jekyll/n03/dossier_info/inform_7.htm

[5] http://italy.peacelink.org/mediawatch/

[6] Si veda, ad esempio, il dossier "Apparatus of Lies. Saddam’s Disinformation and Propaganda 1990-2003", pubblicato direttamente sul sito della Casa Bianca
http://www.whitehouse.gov/ogc/apparatus/

[7] Vedi http://www.projectcensored.org/publications/2001/3.html





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