Umanità Nova, numero 13 dell'11 aprile 2004, Anno 84
Man mano che si avvicina il periodo elettorale, sale la tensione nella maggioranza di governo per la paura di una pesante sconfitta. I recenti risultati elettorali di Spagna e Francia rappresentano un incubo per i partiti di governo ed in particolare per il capo banda Silvio Berlusconi. La inaspettata vittoria dei partiti di sinistra nei paesi citati non è neanche avvenuta per particolari meriti dell'opposizione, guidata da leader semi-sconosciuti sia all'interno che all'estero, che hanno ereditato strutture e organizzazioni screditate, agonizzanti e logorate da precedenti e devastanti esperienze di governo. Alla sconfitta di Aznar ha contribuito in misura determinante l'ondata di indignazione civile che ha attraversato la Spagna dopo la palese strumentalizzazione della strage di Madrid da parte del governo. La sconfitta del centro-destra francese è legata senz'altro al malessere sociale creato dalla politica del governo Raffarin, alle sue drastiche scelte sociali in tema di pensioni, sanità, politiche del lavoro, oltre che al carattere decrepito di una classe politica incapace di rinnovarsi per tempo. Ma il caso greco ed il caso tedesco dimostrano che non si tratta di un'ondata "riformista" capace di ridisegnare politicamente l'Europa, come nel 1997-2000, quando 13 paesi su 15 vedevano al potere coalizione di centro-sinistra. Semmai la sostituzione dei socialisti greci con Nuova Democrazia e la riduzione ai minimi storici della consistenza della Spd tedesca in alcuni "lander" chiave denunciano che chiunque è al governo paga dazio: le politiche recessive che si è data l'Europa hanno gli stessi contenuti alle diverse latitudini e creano gli stessi problemi di consenso sociale. Nel momento in cui Berlusconi rilancia riforma delle pensioni e taglio dei ponti festivi, la Spd tedesca si dilania sulla necessità di alzare l'età pensionabile e ridurne le prestazioni, cercando contemporaneamente di far salire la produttività con l'allungamento degli orari di lavoro. Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire, ma il nostro paese è sempre un pochino speciale. Qui non si tratta infatti, semplicemente, di organizzare attraverso il voto una sostituzione dell'elite di governo, mettendo in moto un ordinario processo di alternanza politica. La specificità del ceto politico portato su da Forza Italia e dai suoi sottomessi alleati ne fa un soggetto potenzialmente molto più pericoloso e inaffidabile. Il complesso dei problemi che possiamo riassumere come conflitto di interessi rende assai problematica una normale transizione di potere. Un governo che è ossessionato dalla sistematica necessità di occupare ogni casella e di spianare qualunque sembianza di potere contrapposto al suo può innescare dinamiche molto pericolose per il normale esercizio della democrazia formale. Un governo così fragile e così debole è capace di tutto, ma non di reggere ad un esito elettorale infausto, che potrebbe scatenare la sindrome da abbandono della nave in avaria.
Ecco perché Berlusconi e i suoi azzurri hanno sentito il dovere di proporre misure "non convenzionali" per sbloccare la situazione di stallo dell'economia, usando il convegno Confcommercio di Cernobbio come trampolino di lancio. Il segnale forte che Tremonti e il suo capo hanno voluto lanciare è quello di creare uno shock economico attraverso l'accelerazione della riforma fiscale, adottando al più presto la modulazione delle aliquote e degli scaglioni precedentemente proposta e programmata "entro la fine della legislatura". Per vincere le elezioni (o perlomeno tentare di non perderle) Berlusconi vuole fare qualcosa entro aprile, per capitalizzare i risultati della sua campagna di marketing già entro giugno. Il piatto forte prevede il passaggio a due sole aliquote: 23% fino a 100.000 euro e 33% oltre quella cifra. In realtà le aliquote sarebbero tre, perché fino a 10.000 euro (circa) funzionerebbe l'aliquota zero della "no tax area". Questa riforma dovrebbe portare all'aliquota del 23% quasi tutti i contribuenti: secondo i dati fiscali del 2000, circa il 99.5% degli oltre 31 milioni di contribuenti italiani starebbe sotto i 100.000 euro. Lo slogan meno tasse per tutti starebbe quindi per diventare realtà, con sommo vantaggio per tutti quelli che hanno redditi alti. Chi paga l'aliquota massima del 45% risparmierebbe decine di migliaia di euro, chi invece è posizionato sui livelli inferiori quasi non se ne accorgerebbe. Si tratta infatti di verificare come giocherebbe la revisione delle detrazioni e la loro sostituzione con le deduzioni, soprattutto sui redditi medi e medio-bassi.
Per quanto sia inutile addentrarsi ora in simulazioni su modelli di cui non sono note ancora le reali caratteristiche tecniche, conviene badare alla sostanza ed alla praticabilità del progetto. Non a caso gli alleati di governo si sono dimostrati freddi e contrariati dalle sparate del premier. Fini ha detto che sarebbe meglio cominciare dall'Irap, che appesantisce (a suo dire) la piccola e media impresa. Buttiglione ha chiesto quali spese dovrebbero venire tagliate. L'opposizione grida all'ennesima boutade propagandistica.
In effetti l'adozione immediata delle due aliquote costerebbe circa 20 miliardi di euro l'anno. Berlusconi si è spinto fino a ipotizzare un taglio iniziale di 6 miliardi di euro, affidando a Tremonti il compito di trovarli tagliando le spese, gli sprechi e i trasferimenti alle aziende ex-pubbliche (circa 50 miliardi all'anno). Il problema di copertura si fa oltremodo drammatico, dopo il fallimento sostanziale del condono edilizio, cui ha aderito una minima parte degli "aventi diritto". È vero che la strada del condono è stata sbarrata dal ricorso costituzionale delle Regioni, la cui sentenza è prevista non prima dell'11 maggio, e che l'incertezza normativa ha consigliato un rinvio fino al 30 giugno prossimo venturo. Il guaio serio è che il governo ha posto dei problemi pesanti per tutta la finanza pubblica, perché il costante taglio dei trasferimenti agli enti locali (fatti 100 nel 1990, si è scesi a 63 nel 2003) ha fatto impennare la tassazione di Ici e addizionali regionali e comunali, che sono salite in modo esponenziale negli anni passati (oltre la metà dei comuni ha dovuto istituire le addizionali per sopravvivere). Vista la fortissima crescita della tassazione locale, il governo ha pensato bene di impedire per legge, ai comuni che non l'avessero già fatto, di introdurre nuove addizionali. Gli enti locali rischiano così la bancarotta in poco tempo.
La stagnazione economica aggrava ulteriormente lo squilibrio territoriale. I poco più di 200.000 posti di lavoro "creati" dal governo Berlusconi e dalla sua legge 30 non hanno impedito di accrescere il divario tra Nord (disoccupazione ufficiale al 3,9%) e Sud (disoccupazione ufficiale al 17,8%). L'Italia arranca, dopo la Germania, all'ultimo posto per crescita economica all'interno della Uem e presto i dati di bilancio imporranno anche all'Italia di chiedere l'autorizzazione a sforare sui parametri di Maastricht, senza subire sanzioni. Non è scongiurato il pericolo di un declassamento del rating paese da parte di Standard & Poor entro la fine della prossima estate. La Commissione europea potrebbe aprire a giorni una procedura di "early warning" per il deficit italiano fuori controllo.
L'inarrestabile caduta del settore manifatturiero italiano non conosce soluzione di continuità ed il governo è troppo occupato nelle sue risse per inventarsi qualcosa che ne inverta la rotta. In un contesto del genere, il taglio delle tasse può concretizzarsi soltanto mediante il taglio radicale della spesa sociale, scaricando sulla finanza decentrata i costi politici dell'inasprimento della tassazione locale. L'operazione di propaganda può quindi produrre delle conseguenze molto serie sul proseguimento del percorso di "risanamento" della finanza pubblica italiana. La sinistra avrebbe così buon gioco nel riproporsi come unica depositaria di una visione rigorista dei conti pubblici e candidata naturale alla gestione dei sacrifici necessari a recuperare il terreno perduto.
Il risultato finale è che nella tenaglia destra-sinistra finisce sbriciolata la qualità della vita della stragrande maggioranza del lavoro salariato, su cui non diminuisce la pressione fiscale effettiva da parte dello stato ed aumenta l'imposizione locale attraverso tasse e rincaro dei servizi. Una tendenza che può essere arrestata non certo attraverso un cambio di maggioranza parlamentare, ma solo da una ripresa della resistenza dal basso alle politiche liberiste.
Renato Strumia