Umanità Nova, numero 14 del 25 aprile 2004, Anno 84
La prima sorpresa al mio arrivo a Kigali, lo scorso mese di gennaio, è stata quella di notare l'altezza delle persone: mi sembrava di essere capitato in un raduno di giocatori e giocatrici di basket, distinti nelle loro uniformi di addetti aeroportuali. Il riflesso condizionato è scattato immediatamente: ecco finalmente i tutsi, ossia quei watussi "altissimi negri", cantati da Edoardo Vianello in una celebre canzonetta estiva degli anni della mia infanzia, i "favolosi anni sessanta". Era vero, "ogni due passi facevano due metri", ma ancor più grande è stata la mia sorpresa quando gli amici congolesi che ci erano venuti a prendere per portarci oltre confine ci hanno rivelato come alcuni di quei longilinei dai piedi piantati all'equatore e la testa al Kilimangiaro erano hutu!
A dieci anni dal genocidio dell'aprile 1994, in cui perirono in cento giorni quasi 800mila ruandesi tra tutsi (la stragrande maggioranza) e hutu oppositori del regime omicida e criminale, i pregiudizi sulle discriminazioni etniche come origine del crimine umanitario persistono ad onta del tentativo di riappacificazione nazionale operato dai vincitori del conflitto di ieri, tutsi emigrati nel 1959 che grazie ad appoggi poco disinteressati degli stati vicini, hanno raccolto le forze necessarie non tanto per fermare il massacro, quanto per ribaltare una situazione compromessa.
Quando il 6 aprile 1994 un razzo terra-aria disintegra l'aereo che trasportava i due presidenti hutu moderati del Ruanda e del Burundi, il piano genocidario era già pronto: la radio delle Mille colline e la stampa estremista aveva cominciato a pubblicare e diffondere i nominativi, le famiglie, i villaggi da eliminare fisicamente, con la complicità di parte del clero cattolico - nelle cui chiese dove si illudevano di trovare scampo a migliaia trovarono una morte atroce, arti spezzati e dissanguati - oggi alla sbarra ad Arusha, in Tanzania, presso il tribunale internazionale costituito ex post dalle Nazioni Unite.
Senza armi di distruzione di massa, ma armati solo di machete affilati e qualche fucile mitragliatore, ottomila massacrati al giorno non sono frutto di una escalation emotiva, né tanto meno di una situazione sfuggita di mano, episodica, eccezionale. E soprattutto i massacri ripetuti non passavano inosservati, non potevano passare inosservati ai numerosi appartenenti alle ambasciate dei paesi illuminati, ai numerosi militari là inviati giusto il tempo per evacuare il personale estero, ai numerosi giornalisti di istituzioni mediatiche assetate di sangue per dare una notizia solo dopo che tanto, ma tanto sangue fu versato.
La Francia di Mitterand, l'illuminista capo di stato erede di Voltaire, improvvisamente non vide niente, la luce si spense per lui e per i paesi occidentali, sino a negare non solo il verosimile, ma anche il plausibile, il vero, le montagne di cadaveri, per poi trincerarsi nell'indistinzione di una lettura interessata del genocidio: una guerra civile tra hutu e tutsi che si massacrano a vicenda, confondendo le responsabilità. Ma tale mossa non è solo una scorrettezza ad uso degli storici di domani, ma per un politico è una omissione colpevole che denota una scelta di campo a favore del genocidio, termine del resto mai usato da nessun diplomatico sino all'estate del 1994, quando la puzza dei cadaveri arrivò sino al palazzo di vetri dell'Onu a New York, stranamente bypassando Parigi - solo di recente l'ex Ministro degli esteri francese de Villepin, ora neo ministro dell'interno, ha chiesto ritualmente scusa e perdono per l'insufficienza dell'intervento umanitario a favore delle vittime ruandesi, senza per questo ammettere l'interesse francese affinché il genocidio si perpetrasse senza ostacoli.
Le responsabilità occidentali sono emerse ulteriormente di recente, quando la Francia ha tentato di addossare all'attuale presidente ruandese, Paul Kagame, la cui foto giganteggia in ogni ufficio pubblico, il ruolo di mandante dell'abbattimento dell'aereo presidenziale, sostenendo implicitamente il suo tornaconto personale e di fazione estera allo sterminio della "propria" popolazione. Evidentemente non suona strano, a chi enuncia tali ipotesi pure plausibili, il sacrificio di 800mila persone della "propria" nazione per salire al potere, e senza dotarsi di armi di distruzione di massa… Forse i paesi detentori dell'atomica quale mezzo di dominio planetario ne sanno qualcosa di più del misero Kagame, se assumono lo sterminio e il genocidio come suprema risorsa politica per assecondare la propria sete di potere!
Oggi il Ruanda è un piccolo paese povero che sta cercando di risollevarsi nascondendo le ferite, proteso a ricostruire strade e scuole, a quanto è dato di vedere, promuovendo una coscienza nazionale che oltrepassi le distinzioni etniche, senza perpetuare l'uso tipicamente colonialista di usare ora l'uno, ora l'altro gruppo reciprocamente contro per eleggerlo partner locale nel condominio di potere e sfruttamento (i belgi furono apripista in questo, tra i regimi colonialisti più duri e criminali mai visti in Africa). Certo, le dimensioni del Ruanda e la quantità di abitanti rendono più agevole il compito e il controllo esercitato dall'élite al potere, specialmente dopo aver scaricato sul vicino gigante congolese i problemi dei genocidari, dei profughi, dei mercenari, consentendosi di scorazzare oltre confine per mantenere integro il proprio territorio dai possibili contraccolpi di una riappacificazione tutta ancora da provare a lungo termine.
Massimo Tessitore