Umanità Nova, numero 15 del 2 maggio 2004, Anno 84
Per il mondo del lavoro in Italia, l'anno trascorso tra il I maggio 2003 e il I maggio 2004 segna uno spartiacque non eludibile. Il governo di destra ha infatti portato a compimento quella radicale (contro)riforma della legislazione lavoristica che si era proposto in campagna elettorale e che va sotto il nome di rifoma Biagi, dal nome del professore di diritto del lavoro che ne fu uno degli ispiratori e che è stato ucciso da un gruppo che si presenta come epigono delle Brigate Rosse. Merita ricordare che allo stesso gruppo è attribuito l'omicidio di un altro professore di diritto del lavoro, vicino al centrosinistra, D'Antona, tra gli ispiratori del Pacchetto Treu, normativa che nel 1997 introdusse nel nostro ordinamento il lavoro interinale.
Non può passare inosservato che nel nostro paese il ridisegno legislativo del diritto del lavoro è stato benedetto dal sangue di professori universitari, il cui martirio dovrebbe tappare la bocca ai critici e ai detrattori del nuovo che avanza.
La prima considerazione politica da fare sul quadro che oggi presenta la legislazione giuslavoristica è che essa non è il risultato di una perfida macchinazione del capitale e dei suoi servi di destra al potere a danno dei lavoratori subordinati, ma semplice formalizzazione dei rapporti di forza nella società dopo un lungo percorso di riappropriazione del capitale stesso del controllo sulla forza lavoro. Controllo sulla forza lavoro significa disporre della stessa secondo le esigenze della produzione, cioè secondo i tempi e modi della produzione dettati dalle contingenze e dall'esigenza, ineludibile, di fare profitto sempre e comunque. Lo spostamento di baricentro è chiaro. Al posto di una società che pone al centro il lavoro, così come, con tutti i suoi limiti applicativi, cercava di fare la Costituzione repubblicana del 1948 (art. 1 L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro; e si leggano anche gli artt. 3, 4, 36, 41 della Costituzione), ci si offre oggi un ordinamento giuridico dove il lavoro è mero fattore della produzione utilizzabile come dove quando e quanto serve. La condizione di lavoratore anziché fondamento della cittadinanza diventa semplice strumento per procacciarsi il reddito di che vivere: da cittadini a risorse umane. La precarizzazione delle condizioni per procurarsi il reddito non può che tradursi in una soggezione a chi ha il potere che determina un venir meno degli spazi di libertà e partecipazione.
La pratica espulsione di una fetta rilevante di lavoratori dal circuito democratico non desta scandalo né a destra (ci mancherebbe…) né a sinistra. Da anni la leadership ulivista (Prodi, D'Alema, Rutelli e corifei) teorizza e pratica la politica come mera conquista ed esercizio del potere a prescindere. La cosiddetta sinistra non ha neanche più un modello socialdemocratico di società da proporre, ma naviga a vista annusando il vento delle contingenze. Oggi tira aria di neoliberismo e allora potremmo scommettere che una sinistra tornata al potere al posto di Berlusconi non abrogherà la riforma Biagi che precarizza totalmente il lavoro e lo mette alla mercè del capitale, invocando magari l'Europa o la mondializzazione dell'economia (e quando mai l'economia, almeno dal XVI secolo, non è stata mondiale?).
Ma, come dicevamo all'inizio, l'attuale contingenza normativa fotografa solo il rapporto di forza tra le classi. La classe lavoratrice ha perso certamente per strada quei soggetti che si proponevano come suoi istituzionali rappresentanti, nel senso che oggi degli interessi della classe lavoratrice in quanto tale frega poco a tutti i partiti politici e a gran parte di CGIL-CISL e UIL, soggetti autoreferenziali e votati al tatticismo del momento (vedasi formali levate di scudi dei sindacati di stato contro il governo della destra e firma di contratti collettivi a perdere nell'ultimo anno). I lavoratori sono solo una parte di quel mercato elettorale da catturare con spot accattivanti e offerte last minute a quarantottore dalle elezioni. Per il resto che si arrangino.
Proprio questo smascheramento volontario dell'ipocrisia rappresentativa (partitica e sindacale) può costituire un'occasione di autorappresentazione di chi per vivere mette a disposizione altrui le proprie energie in quello che giuridicamente si chiama rapporto di lavoro subordinato. Dal riconoscimento di una comune condizione, la subordinazione per procurarsi i mezzi di sussistenza, nasce la capacità di proiettrasi all'esterno come soggetto collettivo. Passata la sbornia secolare della conquista dello stato e del potere politico attraverso i partiti rappresentativi o rivoluzionari, potrebbe essere ora per chi lavora (bestemmiando) per vivere, di organizzarsi in autonomia contro tutti coloro (padroni e stato) che sulle sue spalle campa e si arricchisce.
La messa a nudo dei rapporti di forza nella società e nel mondo del lavoro che questo anno ci ha regalato con la riforma Biagi ha solo fatto, dolorosamente, chiarezza. Solo la solidarietà e la ricostituzione di un tessuto comune tra sfruttati, potrà iniziare un processo di riappropriazione di vita di tempo di dignità di ricchezza per chi fatica quotidianamente. I lavoratori possono contare solo su se stessi: e vi pare poco?
Simone Bisacca