Umanità Nova, numero 15 del 2 maggio 2004, Anno 84
Vengono definiti "danni collaterali" quelli provocati senza volerlo, effetti non predeterminati di una qualsiasi azione diretta a tutt'altro scopo e, in guerra, questi effetti sono spesso dannosi quanto il conflitto stesso.
Oltre ai ben noti e tragici danni causati alle strutture collettive ed alle vite della popolazione inerme ci sono quelli che agiscono anche molto lontano dai luoghi dove si consuma lo scontro armato e che, se pure non fanno vittime umane, risultano ugualmente perniciosi.
La guerra è infatti un argomento "potente", un tema davanti al quale difficilmente si riesce a restare indifferenti, specialmente quando viene adeguatamente pompato dai mass-media. Conflitti ben più lunghi e sanguinosi di quello attualmente in corso in Iraq raramente hanno conquistato e mantenuto tanto a lungo le prime pagine e le ribalte televisive. Se poi si pensa che negli ultimi 50 anni di "pace" sono morte più di 25 milioni di persone a causa di "eventi bellici" ci si rende facilmente conto quanto peso abbia la disinformazione nella creazione di un clima di guerra.
La realtà è che la guerra funziona anche come una cortina fumogena che nasconde tutto quello che accade al di fuori di essa per cui, in alcuni casi, gli spacciatori di "informazione" tendono a riempire fino all'orlo i loro contenitori con le ultimissime notizie dal fronte lasciando inesorabilmente fuori tutto il resto, mentre in altre occasioni un conflitto armato viene trattato alla stregua di una notizia di cronaca nera.
È una vera e propria manipolazione della realtà: l'enorme massa delle notizie riguardanti la guerra può relegare in un cantuccio gli altri avvenimenti o eliminarli del tutto: cosa volete che siano svariati giorni di blocco dello stabilimento FIAT di Melfi davanti alla sorte di quattro poveri giovani, emigrati per lavoro, sequestrati dai terroristi islamici?
La guerra fa sparire magicamente i problemi del lavoro, dello sfruttamento, dell'ambiente e via elencando.
La guerra costringe tutti a stare al suo gioco, a parlare la sua lingua, a ragionare in termini "militari", a dipendere dalle veline dei comandi strategici e dei ministeri, a confrontarsi con il ritorno del più bieco nazionalismo contornato dallo sventolio di bandiere e da inni alla patria.
La guerra invade la vita a tutti i livelli, modificando abitudini, pilotando discussioni, indirizzando scadenze e consumi, alimentando i peggiori luoghi comuni: la guerra lampo, il fondamentalismo islamico, la natura umana...
La guerra ferma la politica, tutti i temi in discussione prima dello scoppio del conflitto vengono accantonati e mentre l'economia tira (nel 2003 l'Italia ha aumentato le esportazioni di armi) il potere ci vorrebbe tutti davanti alla TV (o al computer) o a leggere il nostro quotidiano preferito, l'importante è preoccuparsi della guerra - prima di qualsiasi altra cosa - tutto il resto può anche aspettare.
La guerra, quindi, va combattuta oltre che con il necessario impegno antimilitarista, anche continuando ad occuparsi di tutto il resto, cioè non lasciando che essa diventi l'unico terreno di scontro della lotta sociale.
Pepsy