Umanità Nova, numero 15 del 2 maggio 2004, Anno 84
L'identificazione del migrante come nemico interno/esterno può
apparire una forzatura politica della nostra critica radicale; ma se
è innegabile che nessuna guerra è stata mai formalmente
proclamata contro i migranti, e che questi non dispongono del relativo
status di nemici, è pur vero che essi vengono trattati di fatto
come tali nel momento in cui cercano di "invadere" il suolo nazionale.
Appartengono infatti alle legislazioni di guerra l'internamento,
l'espulsione o la privazione dei diritti più elementari nei
confronti dei civili nemici, cioè i cittadini non combattenti di
uno stato considerato nemico. D'altra parte nella nostra epoca
"pacificata" le guerre, senza essere neppure dichiarate, sono
combattute ma non riconosciute come tali dagli aggressori che
preferiscono presentarle come "missioni di pace", di "ingerenza
umanitaria" o di "polizia internazionale".
Dal punto di vista politico e militare, non c'è soluzione di continuità tra l'invadente pacificazione armata nei Balcani, in Iraq o in Afganistan e la difesa militare delle "nostre" coste dagli stranieri "clandestini", immancabilmente presentati dalla stampa come possibili emissari del terrorismo internazionale. Le truppe impegnate sono più o meno le stesse e analoga risulta la retorica patriottica dell'interesse nazionale ben esemplificate dalle recenti parole del ministro della Difesa, Martino: "difendere la patria oggi significa combattere fanatici e assassini anche lontani dai nostri confini".
Secondo tale "pensiero di Stato", il migrante viene considerato a
tutti gli effetti un nemico perché visto come minaccia al
fondamento stesso dell'ordine statuale, cioè della nazione.
Infatti quanto più l'idea di nazione ha bisogno d'essere
accreditata e legittimata, tanto più ha bisogno di "nemici" che
ne definiscano simbolicamente le frontiere.
Per meglio comprendere simile logica, basta vedere la propaganda e la
cultura politica della Lega Nord, raggruppamento neonazionalista
(padano) che è sorto e si è sviluppato proprio creando
minacce, pericoli e nemici (i meridionali, l'invasione degli africani,
gli islamici…) funzionali alla pretesa di proclamarsi come il difensore
di una determinata comunità e di un determinato territorio
agitando la bandiera del "Padroni a casa nostra".
Quando questo meccanismo è già consolidato, alle forme più parossistiche di razzismo si sostituiscono quelle procedurali, burocratiche e democratiche che non hanno bisogno di manifestare l'avversione per l'immigrato, ma di fatto lo trattano alla stregua di un nemico, come dimostrano i centri/lager per gli immigrati "irregolari" o le attese inumane a cui sono costretti davanti alle questure i lavoratori stranieri richiedenti uno straccio di "regolarizzazione".
Attraverso la discriminazione nei confronti degli stranieri in cerca di lavoro o di rifugio, la società nazionale cerca così una giustificazione essenziale per la propria esistenza; paradossalmente, la società capitalista ha bisogno dei migranti che esclude, ne ha bisogno per escluderli come nemici. È questo che forse spiega, assieme all'interesse economico, il "doppio gioco" che le società di immigrazione vecchie e nuove - compresa quella italiana - conducono nei confronti dei migranti: la ferocia inumana delle norme contro i clandestini e l'accettazione di un certo flusso seppur contingentato di migranti, la coesistenza di esclusione xenofoba e di ideologia "multirazziale", di negazione dei diritti e di esaltazione della diversità culturale, di ossessione per il controllo degli extracomunitari e di tolleranza del lavoro nero.
Ma forse si tratta di contraddizioni solo apparenti.
Per meglio comprendere le politiche dei governi a regime capitalista rispetto ai flussi migratori occorre tenere presenti due domande fondamentali:
1) È importante conservare la propria identità e le proprie caratteristiche culturali?
2) È importante stabilire delle relazioni con gli altri gruppi presenti nella società?
A seconda delle risposte che vengono date, ogni azione legislativa sposa un modello di società. Si danno così quattro opzioni:
- le politiche che mirano all'integrazione rispondono affermativamente ai due quesiti;
- le politiche di separazione rispondono affermativamente al primo quesito e negativamente al secondo;
- le politiche di assimilazione negano la possibilità per gli
immigrati di coltivare in suolo d'accoglienza tradizioni e culture
proprie dei paesi nativi e contemporaneamente affermano l'importanza di
fare propri i modelli culturali presenti;
- le politiche di marginalizzazione rispondono negativamente ai due quesiti.
Facile individuare le opzioni fatte proprie attualmente dalle diverse forze politiche: il modello della separazione è quello che perseguono i partiti, al di là delle varie sfumature, del centro-destra e i settori clericali più conservatori; quello della marginalizzazione è portato avanti dalla Lega Nord e da gruppi d'estrema destra come Forza Nuova; le politiche di assimilazione, già sostenute negli Usa ai tempi del taylorismo, sono oggi portate avanti dal centro-sinistra, dal capitalismo più lungimirante e dalla maggioranza della Chiesa cattolica.
Il modello dell'assimilazione è quello che si propone nei fatti anche la politica comunitaria europea in materia d'immigrazione, a partire dal Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, e successivamente precisato e sviluppato dal Consiglio europeo nei vertici di Tampere, Siviglia. Salonicco e Bruxelles, che hanno progressivamente accentuato in senso restrittivo il controllo delle frontiere della Fortezza Europa.
Da parte sua però il Comitato economico e sociale europeo (Cese), in cui sono rappresentate le organizzazioni socio-economiche quali le associazioni del padronato, i sindacati ufficiali e gli altri interessi socio-professionali, ha recentemente avanzato - in controtendenza - la concessione della cittadinanza europea ai cittadini dei paesi terzi residenti stabilmente e legalmente, al fine di permetterne una piena integrazione, anche civile e politica, comprendente in prospettiva anche il diritto di voto.
Questa proposta è originata dalla constatazione che ogni anno arrivano nella U.E., secondo dati di Europol, circa 500 mila "irregolari" e che l'immigrazione è necessaria per rispondere alle richieste di manodopera nei paesi europei; da qui la proposta dell'istituzione di un permesso d'ingresso temporaneo di 6 mesi che permetta al migrante di trovare lavoro, superando il circolo vizioso e paradossale per cui può venire a cercare un lavoro solo se già possiede delle risorse proprie sufficienti al suo mantenimento.
Tali provvedimenti sono stati presentati come tappe di una politica europea a favore dell'integrazione, ma in realtà questa appare una vera e propria mistificazione.
Innanzitutto in tale disegno non si intravedono né principi umanitari né intenzioni inclusive interculturali; le motivazioni appaiono infatti dettate da calcoli puramente d'interesse economico e presentano comunque postulati discriminanti.
Da qualche tempo il capitale ha infatti scoperto la convenienza della "multiculturalità" e non soltanto in termini di produttività e sfruttamento di una manodopera flessibile, ricattabile e a buon mercato, ma in termini di funzionalità e dinamicità, tanto che alcuni economisti hanno evidenziato i vantaggi in tal senso registrati nelle metropoli multietniche degli Stati Uniti.
Inoltre, come già accennato poche righe sopra, non si può parlare di effettiva integrazione in quanto tali indirizzi, apparentemente più illuminati, comunque sono subordinati al fatto che "gli immigrati rispettino, accettino e facciano proprie non solo le leggi del paese d'accoglienza, ma anche i suoi valori e principi fondamentali (…) Tale obiettivo è requisito indispensabile per un'accettazione degli immigrati da parte delle nostre società e potrà contribuire, meglio di molti discorsi, a lottare efficacemente contro il razzismo".
A dimostrazione di quanto razzismo è insito nel pensiero democratico liberale.
KAS