Umanità Nova, numero 15 del 2 maggio 2004, Anno 84
"Abbiamo ucciso qualche centinaio di somali": questa cinica
ammissione venne tardivamente resa dal generale Fiore, comandante del
contingente italiano in Somalia. Non era certo un mistero che, nel
corso della missione Restore Hope nel '93, i "nostri" paracadutisti
avessero sparato, torturato e violentato, ma si dovettero attendere
quattro anni per conoscere, attraverso quella frase, il numero
approssimativo delle vittime dell'intervento militare italiano.
Viene quindi spontaneo chiedersi quanto tempo dovremo aspettare per
sapere quanti civili rimasero uccisi dalle incursioni aeree italiane in
Kosovo durante l'aggressione Nato alla Serbia nel '99, così come
a quanto ammontano i morti causati dalle missioni "di pace" italiane in
corso in Iraq e Afganistan.
Il segreto di Stato sta seppellendo infatti queste
responsabilità più velocemente ed efficacemente di
un'impresa funebre.
Emblematico in tal senso l'eccidio compiuto a Nassiriya lo scorso 6
aprile, quando bersaglieri, lagunari e carabinieri hanno aperto il
fuoco sulla folla in rivolta sparando qualcosa come trentamila colpi
con armi leggere e pesanti.
Secondo le screditate versioni ufficiali, le vittime - in gran parte
civili, di ogni età e sesso - sarebbero state 15, ma alcune
indiscrezioni parlano almeno di 30 morti in più. Di sicuro si
è consumato un crimine e a confermarlo è stata la
rapidità con la quale la censura militare ha impedito la
divulgazione delle immagini del massacro filmate dagli stessi reparti
militari.
Decenni di stragi di Stato in Italia hanno d'altra parte fatto
scuola e sotto questo punto di vista, per i servizi segreti e gli
apparati militari, i civili sono tutti uguali: italiani, somali, serbi,
afgani, iracheni…
Ed assieme alla censura - poiché i veri motivi delle guerre sono
sempre inammissibili - vediamo ogni giorno il dispiegamento della
propaganda bellicista e della sistematica disinformazione, mirante a
sostenere che in Iraq e in Afghanistan non c'è guerra, non vi
sono truppe d'occupazione e tanto meno esiste una resistenza popolare.
In Afganistan i bombardamenti Usa sono stati preceduti da una campagna
mediatica tesa a far apparire l'intero paese come un "santuario del
terrorismo internazionale" e far credere che la sua invasione avesse
per scopo la liberazione delle donne dall'oppressione talebana.
L'aggressione finale contro l'Iraq è stata invece motivata dalle
mai trovate "armi di distruzione di massa" con cui l'ex-alleato Saddam
Hussein avrebbe minacciato l'intera umanità, anche se poi le
bombe dei "liberatori" hanno assassinato circa diecimila civili
iracheni.
Dato questo in linea con la statistica che registra proprio tra i civili il 90% delle vittime di ogni conflitto.
Ma ormai le menzogne non sono più sufficienti a coprire non solo gli interessi economici che armano e dirigono la politica di guerra del governo statunitense e dei suoi alleati europei, in quanto la più micidiale e sofisticata macchina di morte del mondo non è riuscita, come già avvenne in Vietnam, ad annientare o comprare le resistenze di società che una volta "liberate" non hanno accettato i nuovi regimi imposti dagli eserciti occupanti e dalle multinazionali interessate soltanto a saccheggiare le risorse energetiche e a sfruttare i territori acquisiti militarmente.
È evidente che il processo di "normalizzazione" e di
privatizzazione liberista, sia in Iraq che in Afganistan, si è
bloccato e i suoi fautori hanno dovuto prendere atto che non solo la
guerra non è autofinanziata, come promesso da Bush, ma che ormai
il business è così ad alto rischio da non essere nemmeno
"coperto" da alcuna compagnia assicurativa. Gli spregiudicati
capitalisti, anche nostrani, attirati dalle lucrose prospettive della
ricostruzione in Iraq, per difendere la propria incolumità e le
loro imprese, hanno dovuto assoldare 15-20 mila mercenari per la
"sicurezza"; mentre in Afghanistan, fuori da Kabul, le ditte straniere
devono operare con appositi team sotto la protezione di ingenti forze
militari.
Come accadde anche ai partigiani europei durante la lotta contro il
nazi-fascismo, i resistenti e gli oppositori vengono definiti banditi e
terroristi dai governi neocoloniali e dagli organi d'informazione ad
essi asserviti: si tratta infatti di un'altra verità
inconfessabile, soprattutto dopo la spettacolare cattura di Saddam
Hussein che ha favorito soltanto una nuova alleanza nazionalista tra
gruppi sciiti e sunniti.
Una verità, quella della guerriglia, scomoda anche per larga
parte della sinistra istituzionale e del movimento pacifista che, pur
avendo portato in piazza milioni di manifestanti, non sono riusciti a
fermare la guerra.
Il loro imbarazzo appare talvolta influenzato anche da un certo
"razzismo" culturale, ma soprattutto risulta condizionato dalla
disinformazione interventista volta a rappresentare in modo deformato e
sommario la realtà complessa ed articolata delle resistenze
afgane e irachene, tutte liquidate come espressione dell'estremismo
islamico e dei seguaci dei passati regimi.
Da parte nostra, come antimilitaristi e antiautoritari, siamo ben consapevoli che non tutti gli attuali nemici dell'imperialismo possono essere considerati come soggetti portatori di un'alternativa al dominio capitalista, così come conosciamo storicamente la distanza esistente tra le lotte di liberazione nazionale e quelle per la liberazione sociale; ma allo stesso tempo vogliamo valorizzare le componenti e gli aspetti più interessanti delle resistenze in atto. Pensiamo, ad esempio, alle donne rivoluzionarie afgane del RAWA e agli operai iracheni protagonisti di scioperi, sabotaggi ed occupazioni di fabbriche, le cui rispettive identità di genere e di classe ci fanno intravedere orizzonti diversi, nel segno dell'uguaglianza e dell'emancipazione.
Shrek