Umanità Nova, numero 16 del 9 maggio 2004, Anno 84
Negli anni passati una consistente letteratura, non sempre priva di
interesse, è stata dedicata alla fine della vecchia composizione
della working class, della centralità della grande impresa, al
decentramento produttivo, alle esternalizzazioni, alla modificazione
della legislazione del lavoro ecc…
Il filo rosso che legava gran parte di questa riflessione, che è
diventata, la cosa va da sé, senso comune era il convincimento
che fosse un ferrovecchio anche il conflitto industriale o, utilizzando
un concetto più impegnativo, la lotta di classe.
D'altro canto, se la classe lavoratrice viene dissolta nella produzione
"postindustriale" ne consegue che non può più agire come
soggetto sociale collettivo ma, al massimo, come un assieme di gruppi
di pressione nel "conflitto redistributivo".
Si potrebbe liquidare tutto il discorso sulla fine delle classi
riprendendo la vecchia battuta che un operaio fa in risposta a chi gli
dice che la lotta di classe è finita "Ma avete informato i
padroni?".
Credo, però, che non basti tenersi alla corretta ma riduttiva
considerazione che la questione sociale non si risolve sui media e che
valga la pena di ricordare che il movimento dei lavoratori non è
la meccanica risposta alla pressione che i lavoratori stessi subiscono
da parte dello stato e delle imprese ma il prodotto di un'elaborazione
individuale e collettiva dell'esperienza proletaria, elaborazione che
si nutre delle esperienze passate in rapporto con le
discontinuità che caratterizzano la condizione dei lavoratori,
discontinuità che, possono anche, essere definite come veri e
propri salti di paradigma produttivo e sociale, come rivoluzioni
all'interno dello stesso modello dominante.
Nell'arco di poche settimane abbiamo assistito alla prima grande lotta
di operai di industria dell'ultimo decennio che non fosse una,
necessaria, risposta all'espulsione dal posto di lavoro o a scelte
generali del governo riguardo al welfare.
A Melfi, si è mossa la fabbrica presentata, dieci anni addietro, come la piena realizzazione del modello industriale postfordista: un contratto "prato verde" fatto prima ancora di assumere i lavoratori, massicci finanziamenti pubblici, il mito di un insediamento industriale che creava occupazione nel depresso sud, un'organizzazione del lavoro toyotista, un sindacalismo che definire concertativo è eufemistico, un ruolo, all'interno del gruppo Fiat, di oggettiva pressione al ribasso rispetto alle condizioni salariali e normative degli altri lavoratori. Si è, infatti parlato di melfizzazione della Fiat riferendosi al metodico peggioramento delle condizioni di lavoro giustificate proprio con la concorrenza interna.
Con la rapidità che assumono, di norma, le lotte che partono
dai punti alti della contraddizione sociale, i lavoratori di Melfi
hanno posto all'ordine del giorno due precisi obiettivi. La
parificazione salariale rispetto agli altri lavoratori del gruppo e il
superamento di un'organizzazione del lavoro oggettivamente massacrante.
Lo hanno fatto, lo abbiamo visto, con una durezza e determinazione
straordinarie e hanno, nei fatti, delegittimato la stessa RSU (a
maggioranza FIM, UILM e Fismic) espressione delle normali regole
democratiche (per quanto truccato sia il meccanismo elettorale imposto
da CGIL-CISL-UIL) che, in mancanza di un movimento di lotta forte, non
possono che fotografare la subalternità dei lavoratori.
Oltre a mettere in discussione la rappresentanza sindacale formale, i
lavoratori di Melfi hanno dimostrato la fragilità
dell'organizzazione del lavoro just in time, la fabbrica integrata
basata sull'ordinato e puntuale funzionamento del ciclo produttivo,
sulla mancanza di magazzini, sulla divisione fra stabilimenti e
proprietà diverse di uno stesso processo produttivo. In questo
modo hanno rovesciato contro il padrone lo stesso processo di
distruzione della vecchia fabbrica fordista utilizzato per indebolire
il potere contrattuale degli operai ed hanno posto all'ordine del
giorno il carattere delle future lotte che si daranno su questo terreno.
Non sappiamo, in questo momento, come si risolverà la vertenza,
il balletto fra FIOM, da una parte, e FIM e UILM, dall'altro, che si
colloca, peraltro, in una complessa dialettica con CGIL-CISL-UIL sembra
in via di risoluzione con un qualche accordo "unitario" che
evidentemente è necessario alla CGIL e viene, in qualche modo,
imposto alla FIOM. È anche vero che la ricomposizione si da
anche grazie ad uno "spostamento" su posizioni più "dure" di
CISL e UIL che, mentre si lagnano orribilmente – soprattutto la CISL -
per le presunte violenze subite dai loro militanti impegnati a
organizzare il crumiraggio, iniziano a riconoscere, bontà loro,
che bisogna "ascoltare i lavoratori".
La lotta contro i licenziamenti dei lavoratori dell'Alitalia
è, da questo punto di vista, più "classica" ma non meno
interessante, blocchi stradali, scioperi selvaggi, capacità di
pressione della base sui sindacati istituzionali, crescita di
consistenza e radicamento del sindacalismo alternativo si sono
intrecciati.
Il tentativo di liquidare la resistenza dei lavoratori dell'Alitalia
come una manifestazione dell'"incomprensione" da parte dei lavoratori
delle oggettive necessità dell'economia è rapidamente
saltato e si è passati a ragionare di cose serie e cioè
del diritto al reddito di coloro che le regole del gioco vogliono
liquidare come inservibili.
L'Alitalia sta, in questo momento, proponendo la classica soluzione
"spezzatino" e cioè l'esternalizzazione di parte consistente
dell'azienda che verrebbe ceduta a delle ditte in appalto con le ovvie
conseguenze per quel che riguarda condizioni e garanzie di lavoro.
Ancora una volta, l'attenzione, a mio avviso, va posta sul fatto che
l'autoattivazione dei lavoratori ha recuperato forme di azione che
stanno diventando senso comune, i lavoratori sembrano aver compreso
appieno che il livello dello scontro è tale che o si riesce a
colpire l'avversario ma anche a produrre comunicazione o non si va da
nessuna parte.
Credo, per tornare a quanto scrivevo all'inizio, che quest'aspetto delle mobilitazioni abbia un interesse non contingente.
Se, riprendendo una definizione alquanto interessante di un
conservatore come Max Weber, definiamo una classe sociale non come un
aggregato statistico ma come una comunità di destino ovverosia
come un gruppo umano costituito da individui che percepiscono, non in
forma ideologica ma immediata, una comune appartenenza, ne consegue che
questa percezione è una conquista, un processo, la costruzione
di codici sociali caratterizzanti questa stessa comunità.
In altri termini, le classi sociali non sono somme di individui ma il
prodotto di una continua attività che si sviluppa su un terreno
dato ma non ne è la semplice registrazione ed anzi modifica
continuamente il quadro delle relazioni sociali.
Le lotte o, almeno, le lotte radicali, sono, da questo punto di
vista essenziali proprio perché sono il momento di
sperimentazione dell'autonomia dei soggetti coinvolti e del loro stesso
riconoscersi come soggetti e non come rotelle della macchina sociale.
In questo processo, la quarta edizione della May Day Parade, svoltasi a
Milano il primo maggio, rientra a pieno. La May Day parade è
scadenza alternativa al Primo Maggio di CGIL-CISL-UIL come momento di
aggregazione e mobilitazione dei lavoratori precari dal sindacalismo
alternativo, (CUB, Sin Cobas, Confederazione Cobas, USI ecc.) e da una
rete di collettivi e raggruppamenti di precari fra i quali i più
noti sono i Chainworker.
Si tratta di un'iniziativa nata nel 2001, sulla base di un accordo fra
CUB e Chainworker, e che ha visto un successo crescente e che, dopo la
buona riuscita del corteo del 2003, ha visto aderire sia i sindacati di
base precedentemente assenti che crescere l'interesse da parte di forze
politiche e sindacali istituzionali precedentemente non interessate
all'iniziativa.
La partecipazione in primo luogo, i più pessimisti valutavano
che vi fossero dalle 40.000 alle 50.000 persone, i più ottimisti
oltre 100.000.
È stato uno straordinario successo sia per il sindacalismo
alternativo, in primo luogo la CUB ma anche altre organizzazioni, che
per il movimento dei precari. Una serie di carri variamente decorati,
la vivacità della partecipazione, le musiche, la massa di
giovani presenti hanno garantito un'allegria, una capacità di
comunicazione e di coinvolgimento dei partecipanti che alle
tradizionali manifestazioni del Primo maggio mancano ormai da molto
tempo.
La May Day Parade ha realizzato il suo obiettivo e cioè porre la
questione della precarizzazione del lavoro, della distruzione dei
diritti, dello svilupparsi di lotte che vedono i precari in prima fila
e, a volte, vincono e lo fa con modalità comunicative diverse
non solo rispetto a quelle che caratterizzano i sindacati di stato – e
in questo caso vi è un, evidente problema politico viste le loro
precise responsabilità nella precarizzazione del lavoro - ma
anche rispetto al sindacalismo alternativo che deve misurarsi con
pratiche, linguaggi, modalità relazionali ai quali non sempre
è abituato.
Si tratta di un incontro importante non perché sia facile ma
perché pone, contemporaneamente, il sindacalismo alternativo di
fronte alla necessità di superare i suoi limiti categoriali ed
aziendali e il movimento dei precari di fronte a quella di costruire
rapporti di forza sui posti di lavoro per piegare l'attuale strapotere
padronale.
Molti nodi politici sono aperti: settori della sinistra istituzionale
alla ricerca di voti e di radicamento, la rivendicazione del salario
garantito può facilmente ridare spazio a pratiche lobbystiche
assolutamente negative, c'è il rischio di un eccesso di
spettacolarità incapace di tradursi in azione quotidiana sui
posti di lavoro e nelle singole località (ed è quello che
temo di più).
Quello che, però, ora interessa è il processo sociale che, da Melfi a Fiumicino alla May day Parade, problematicamente si sta mettendo in atto ed al quale è importane dare un contributo di idee e di proposte.
Cosimo Scarinzi