Umanità Nova, numero 16 del 9 maggio 2004, Anno 84
La situazione in Iraq ha registrato l'accelerazione dello scontro tra
la guerriglia e gli occupanti occidentali a guida americana; inoltre,
lo scontro ha iniziato a coinvolgere partiti e fazioni di quel mondo
sciita, maggioritario nel paese ma da sempre escluso dal potere, che
avevano finora assunto un atteggiamento di attesa nei confronti degli
USA. La guerriglia a composizione sunnita che fino ad adesso aveva
preferito giocarsi lo scontro con gli americani sulla base delle regole
della guerra di guerriglia, con l'effettuazione di attentati a singoli
convogli, sedi delle truppe di occupazione e rappresentanze delle
multinazionali calate sul paese a sfruttare lo sfruttabile, ha compiuto
un salto di qualità con la battaglia di Falluja. Quella che
già adesso viene considerata nel mondo islamico una
"città martire" è tuttora il teatro dello scontro
più massiccio tra gli americani e la resistenza irachena dal
maggio del 2003 a oggi. Centinaia, forse migliaia di morti, utilizzo di
artiglieria, carri armati e aerei da bombardamento non hanno fino ad
adesso piegato i combattenti delle organizzazioni nazionaliste
irachene, fortemente radicati tra le tribù sunnite dell'area, ai
tempi principali beneficiarie del regime di Saddam Hussein. Questo
è un dato che non va dimenticato nelle analisi che vengono fatte
sul paese mediorientale: l'Iraq è un paese con struttura sociale
di tipo tribale, dove l'appartenenza clanica decide in ultima analisi
della collocazione degli individui all'interno della scala sociale e
delle loro fedeltà politiche. L'appoggio delle tribù del
"triangolo sunnita" ai gruppi di resistenza contro l'occupazione era,
quindi, un dato scontato fin dall'inizio dell'occupazione americana del
paese. Quello che non era prevedibile era la dimensione della
resistenza all'occupazione, la sua diffusione sul territorio nazionale
ben oltre i confini dei beneficiari del peculiare welfare saddamita, e
la discesa in campo della maggioranza sciita che aveva accolto
positivamente la cacciata di Saddam e la fine del regime del partito
Baath. L'ampliamento del bacino della guerriglia contro l'occupazione
è avvenuto durante l'anno trascorso, come conseguenza delle
sciagurate politiche degli USA che non hanno esitato a mandare sul
lastrico alcune decine di migliaia di famiglie sciogliendo l'esercito e
la polizia irachene per ricostruirle su basi di fedeltà al
regime di occupazione, mandandone sul lastrico i componenti e
cancellando le pensioni degli ex militari. Questa mossa è
costata agli USA l'assoluta inimicizia dell'ex apparato statale del
paese asiatico che si è visto precipitato nella miseria
più nera da un giorno all'altro, anche perché a questa
prima mossa è seguita quella ancora più peregrina
all'allontanamento di tutti gli iscritti al partito unico del regime
dai posti pubblici che ricoprivano. Tenendo conto che l'iscrizione al
Baath era necessaria per i concorsi pubblici e che, come è
ovvio, l'epurazione si è accanita principalmente sulla piccola
burocrazia, dall'impiegato dell'anagrafe alla maestra di scuola,
è facile capire le conseguenze di questo secondo provvedimento:
l'intero ceto dei piccoli funzionari del paese è stato
cancellato, la gestione amministrativa è diventata impossibile e
centinaia di migliaia di persone si sono trovate per strada.
Naturalmente anche questo secondo provvedimento non ha portato molte
simpatie agli occupanti. Questi ultimi, inoltre, si sono dimostrati del
tutto incapaci di restaurare un livello di vita accettabile per la
popolazione civile: a un anno di distanza dall'occupazione del paese
luce, acqua e gas raggiungono a mala pena il 5% delle case irachene.
L'unico interesse mostrato dall'amministrazione coloniale del "maraja
bianco" Bremer è stato quello per il controllo delle risorse
energetiche e delle strade di comunicazione, piuttosto che per la
costruzione delle 14 basi americane che renderanno l'occupazione del
paese permanente, e per il reclutamento di un nuovo esercito iracheno
costruito sulla base del livello di fedeltà individuale agli
occupanti. La conseguenza di questa politica è stata il suo
fallimento: la popolazione delle città sunnite si è a
poco a poco schierata con la resistenza o ha comunque deciso di
permetterne l'azione facilitandone l'infiltrazione all'interno delle
maglie della sicurezza americana con la semplice arma del silenzio e
della complicità. Questo comportamento ha letteralmente fatto
perdere ogni capacità di relazione alle truppe americane che
hanno iniziato a perquisire a tappeto le case irachene, con strascichi
di stupri, umiliazioni, furti e devastazioni che hanno colpito un
numero progressivamente sempre più alto della popolazione civile
che ormai vive nel terrore di un'improvvisa irruzione delle truppe a
stelle e strisce. La modalità di occupazione che gli USA hanno
deciso di adottare è la stessa che Israele adotta nei confronti
degli abitanti palestinesi: terrorismo continuo contro la popolazione,
umiliazioni e omicidi gratuiti per ricordare ai palestinesi chi
è il più forte. Peccato per loro che la tecnica
israeliana sia applicabile (sia pure con crescenti difficoltà)
contro una popolazione di sei milioni di persone in una terra abitata e
colonizzata dagli israeliani stessi, mentre in un paese come l'Iraq la
cui popolazione è di ventitré milioni e per la quale non
è fortunatamente prevista la pulizia etnica, tale modello di
occupazione non può che scontare una resistenza crescente.
D'altra parte l'attuale leadership americana non sembra in grado di
ragionare con modalità differenti da quelle dell'accelerazione e
della radicalizzazione dello scontro con tutte le forze che si
oppongono anche solo marginalmente alla propria volontà di
dominio politico. La guerra in Iraq perseguita come prova di forza
contro le media potenze mondiali e contro la maggioranza dell'opinione
pubblica occidentale, le modalità di occupazione adottate in
Iraq e prima in Afganistan, il continuo spregio delle Nazioni Unite,
sono tutti sintomi di un unilateralismo rivendicato come tale e
incapace di costruire consenso attorno alle proprie posizioni.
Intendiamoci, ogni paese ed ogni classe dominante che abbiano nel tempo
assunto una posizione di capofila egemone, ha sempre perseguito
innanzitutto il proprio interesse; quello che ne determinava l'egemonia
era la capacità e la possibilità di apparire come la
forza che cercava di ottenere il proprio vantaggio attraverso la
crescita di tutti. Nel dopoguerra gli USA costruirono un blocco
egemonico in cui classi medie e lavoratori qualificati dell'Occidente e
classi dominanti del Sud del mondo, emerse grazie alla decolonizzazione
sponsorizzata da Washington contro i vecchi imperi coloniali
anglo-francesi, trovavano la loro convenienza a consegnare agli Stati
Uniti la guida dell'intera struttura politica, economica e sociale,
certi che il vantaggio della potenza egemone avrebbe rappresentato un
bene per tutti. Non è questo il luogo per analizzare la crisi e
il crollo del blocco egemonico americano, ma è del tutto
evidente che oggi tale blocco, sia sul terreno del rapporto tra le
classi che su quello del rapporto tra gli stai, non c'è
più. Dopo la fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno
intrapreso un'azione per la colonizzazione del Sud e dell'Est del mondo
con lo scopo di impedire la formazione di un mondo multipolare
controllando le risorse necessarie allo sviluppo economico dei
possibili competitori globali. Nel passaggio dall'egemonia al dominio
gli USA hanno progressivamente abbandonato ogni cautela e ogni
volontà di costruire alleanze politiche e sociali all'interno
dei paesi sottoposti al loro neo colonialismo.
Per quanto riguarda l'Iraq è sintomatico il commento del capo di Stato Maggiore inglese che si è detto frustrato nel suo operare dal comportamento degli americani nel paese; le sue dichiarazioni non lasciano dubbi: "…ci rovinano tutto il lavoro di mediazione che facciamo con la popolazione nel sud del paese; per loro gli iracheni sono dei sottouomini, degli untermenschen, sono quello che erano ebrei e slavi per i nazisti." Più chiaro di così…
Il fatto che all'insurrezione della popolazione del triangolo sunnita si sia unita anche quella di un settore significativo di quella sciita che ha guardato con simpatia alla rivolta a cui ha dato vita l'ayatollah Al-Sadr, esponente dell'ala radicale, indipendente da Teheran e laica dello sciismo. Quest'ultimo ha dato vita a una rivolta tuttora non piegata della sua milizia (l'esercito del Mahdi, il cui riferimento è la figura messianica del Mahdi, condottiero religioso, politico e militare del mondo sciita la cui venuta è attesa come momento di riscatto da questa eresia dell'islamismo), appoggiata dalla popolazione dell'immenso quartiere sciita di Baghdad, Sadr city (dedicato a suo padre, il carismatico ayatollah giustiziato da Saddam Hussein nel 1999), e da quella delle città di Bassora, Najaf e Nassyria. Al-Sadr si è oggi rifugiato a Najaf da dove le truppe spagnole stanno iniziando a levare le tende e gli USA non sono tuttora in grado di arrestarlo, mentre a Bassora l'attitudine alla trattativa del comando inglese ha permesso il rientro dell'insurrezione, così come è successo a Nassyria dove il contingente italiano, dopo la prova di forza conclusa con l'omicidio di donne e bambini, ha preferito non seguire le indicazioni dei comandi USA e iniziare una trattativa che ha permesso la relativa pacificazione della zona. L'insurrezione è stata causata dalla precisa volontà americana di piegare la componente sciita della popolazione irachena e di farlo umiliandone l'ala più radicale che fino a quel momento aveva contestato l'occupazione solo sul terreno della protesta di piazza. La chiusura del giornale di Al-Sadr e l'arresto del suo più stretto collaboratore sono state mosse decise in modo lucido per provocare lo scontro; ormai la macchina per il dominio americano non accetta più di mediare e pretende la sottomissione degli interlocutori. La manovra però non è riuscita, e questo per tre ordini di motivi: la resistenza delle milizie sciite che, unita alla continuazione dell'insurrezione di Falluja, disegna uno scenario dove gli USA si stanno dimostrando incapaci di tenere il controllo del territorio fuori dalle basi e dalla cittadelle che hanno costruito a Baghdad e nelle principali città del paese, lo sganciamento della Spagna come segnale dell'insofferenza degli alleati europei nella gestione dell'occupazione su questo livello di scontro, come dimostrato anche dalla gestione ben diversa della crisi fatta da inglesi e dagli stessi italiani, e l'intervento di mediazione svolto dalla diplomazia iraniana che ha perfettamente centrato il suo obiettivo di proporsi come l'unico elemento in grado di mediare tra la popolazione sciita irachena e gli occupanti USA, costringendo così gli americani a riattivare i rapporti con uno dei paesi componenti "l'asse del male". Quest'ultima paradossale conclusione (per quanto parziale) dell'insurrezione sciita dimostra come la strategia del muro contro muro decisa da Washington per piegare ogni resistenza nel paese all'estensione del proprio dominio si stia rivelando assolutamente fallace per loro stessi. Esiste, infatti, una precisa differenza tra una vittoria militare ottenuta grazie a bombardamenti devastanti da 10.000 metri dal suolo e il controllo effettivo di un territorio. Inoltre la diserzione di oltre la metà del nuovo esercito iracheno, teoricamente costruito sulla base della fedeltà agli occupanti, ma che si è disciolto non appena gli è stato ordinato di sparare su altri iracheni, ha dimostrato che il piano consistente nel chiudere le truppe americane nelle basi per affidare il lavoro sul territorio agli ascari locali non è praticabile.
Da qui lo stallo, l'evidente incapacità di gestire una strategia di attacco e il ricorso alla mediazione di uno stato esplicitamente nemico per evitare di cacciarsi in un pantano difficilmente gestibile non tanto per le perdite umane, quanto per l'inevitabile svalutazione internazionale delle azioni dell'unica superpotenza globale. Non è un caso che una parte consistente dell'estabilishment americano conservatore e reaganiano si stia schierando con il rivale di Bush alla corsa per la presidenza, Kerry, che viene visto come elemento cardine di una squadra presidenziale incaricata di ricostruire un livello di fiducia tra gli USA e il resto del mondo, di coinvolgere l'ONU nella ricerca di una via di uscita dal cul de sac iracheno e di costituire un governo iracheno che sostituisca il maraja Bremer preservando gli interessi americani ma ottenendo un minimo di consenso da parte della popolazione locale.
Proprio sul terreno della nuova costituzione irachena e su quello del passaggio di poteri si è determinato lo scontro che ha portato alla prova di forza anti sciiti dell'amministrazione americana; il previsto passaggio di poteri ad un'Amministrazione irachena il 30 giugno di quest'anno è stato elemento scatenante del confronto armato ben più di quanto non lo siano stati altri elementi. Gli USA hanno imposto alla controparte sciita una costituzione blindata che prevede: la trasformazione del paese in senso federale con la consegna ai partiti curdi (gli unici alleati sicuri di Washington) di uno spropositato potere di veto sulle decisioni riguardanti la posizione internazionale del paese e lo sfruttamento delle sue risorse, il divieto per i governi futuri di mettere in discussione le privatizzazioni fatte da Bremer a favore delle multinazionali americane (e, in subordine, italiane ed inglesi) e la permanenza delle 14 basi già costruite dagli americani nel paese. Gli sciiti hanno firmato questo testo capestro obtorto collo e non hanno mai fatto mistero della loro volontà di emendarlo una volta fossero riusciti a salire al potere; gli americani hanno, quindi, deciso di impedire lo svolgimento delle elezioni generali che avrebbero consacrato la vittoria spettacolare dei partiti sciiti e questo ha rafforzato la tensione tra questi ultimi e Bremer. A questo si deve aggiungere il gravissimo attentato subito dai fedeli sciiti in pellegrinaggio un mese fa e che l'opinione pubblica irachena attribuisce agli americani più che alla costellazione di Al Qaeda. Lo stesso ruolo della costellazione di organizzazioni che fa capo a Osama Bin Laden è quanto meno ambiguo, operando sempre in modo da colpire non gli occupanti ma gli occupati come hanno dimostrato le ultime bombe a Bassora le cui vittime sono state tutte irachene. Tali attentati sono molto diversi dalle azioni compiute dalla guerriglia sunnita che cerca di colpire gli occupanti e di evitare il più possibile di coinvolgere i civili iracheni che ne costituiscono la base di simpatia popolare. Gli attentati più sanguinosi e diretti verso la popolazione civile sono sicuramente opera di altri soggetti, anche se non sappiamo se questi ultimi siano da ricondurre alla costellazione dell'integralismo wahabita o ad agenti americani. I wahabiti, essendo integralisti sunniti, considerano gli sciiti degli eretici da colpire alla stessa stregua degli occidentali, ed è probabile che gli USA stiano permettendo loro di installarsi nel paese proprio perché le loro azioni, contribuendo alla tensione tra le diverse comunità irachene, favoriscono in ultima analisi gli interessi di Washington; l'altra ipotesi e che gli attentati siano da attribuire direttamente ad agenti americani incaricati di lanciare avvertimenti di tipo mafioso alla maggioranza sciita con la quale gli USA sanno di dover trattare per riuscire a governare l'Iraq.
Giacomo Catrame