Umanità Nova, numero 16 del 9 maggio 2004, Anno 84
"Quello che è stato fatto a Falluja è una delle pagine
più nere di questo orrore infinito": questa la testimonianza,
riportata sulla stampa, di un cittadino iracheno, sopravvissuto agli
sniper, alle cannonate e alle bombe Usa.
A Falluja come a Najaf, a Husaybah, a Kirkuk, a Nassiriya o a Baghdad,
le truppe d'occupazione si sono ormai tagliate i ponti con la
società irachena, anche perché alcune di queste
città sono considerate sante da ogni credente mussulmano. Nei
confronti sia della guerriglia che delle sommosse popolari, i militari
occupanti applicano sistematicamente le immutate regole della
rappresaglia e del terrorismo, perseguendo vere e proprie logiche
d'annientamento.
Anche se in un ipotetico futuro gli Usa riuscissero ad imporre la loro
"pacificazione", resterebbero le decine di migliaia di morti iracheni
vittime dei "liberatori", con la loro inevitabile eredità di odi
e conflitti.
Se poi si considerano le centinaia di migliaia di iracheni rimasti
uccisi durante la prima aggressione militare Usa nel '91 e le altre
causate, soprattutto tra i bambini, dall'embargo economico e dalle
malattie conseguenti dall'utilizzo di armi sperimentali e dall'uranio
impoverito, si può affermare che in ogni famiglia irachena ci
sono stati dei lutti causati dalla cosiddetta democrazia occidentale.
Una democrazia ipocrita quanto avida che si commuove per alcune decine
di sequestrati, quando essa stessa tiene in ostaggio 22 milioni di
persone che dopo decenni di regime nazionalsocialista di Saddam Hussein
ora si trovano prigioniere di una spietata occupazione militare ed
economica. Una democrazia che accusa di terrorismo ogni forma di
resistenza, seminando la morte a piene mani tra la popolazione civile.
Non casualmente, il governo provvisorio di Bremer, nonostante che abbia
ingaggiato un'agenzia pubblicitaria inglese per convincere gli iracheni
delle proprie intenzioni democratiche, nelle piazze viene paragonato al
passato regime per l'analoga politica repressiva contro le
manifestazioni e la stampa d'opposizione.
Ed ancora una volta le effettive dimensioni della guerra sono
dissimulate dalla censura e dalla disinformazione. Se negli Stati Uniti
si cerca di nascondere la sfilata delle bare con sopra la bandiera
stelle e strisce, in Iraq ogni ammazzato dai militari occupanti
guadagna subito gratuitamente lo status di terrorista o di potenziale
terrorista, bambini compresi.
In Italia, invece, si continua a riproporre sino alla nausea la
retorica degli "Italiani brava gente", comprendendo in tale abbraccio
militari di professione, mercenari, politici in turnée
elettorale e capitalisti d'assalto.
Il sempre sorridente capo del governo italiano ha persino qualche
ragione nel sostenere che "Non siamo servi degli Stati Uniti"; anche la
sudditanza ha infatti il suo prezzo: con 2.700 soldati italiani
impegnati sul campo e una ventina di caduti, l'economia nazionale si
è assicurata una consistente fetta della torta con 45 aziende
già presenti in Iraq e circa 200 interessate a partecipare al
business della ricostruzione postbellica, a partire dai contratti
petroliferi dell'Eni a Nassiriya e Halfaya.
Per questo, nella logica del capitale, non solo bisogna ma conviene restare in Iraq: chi resta e rilancia, incassa anche le fiche di chi abbandona il tavolo da gioco.
Ma i rischi, ad ogni mano, aumentano e i margini di profitto si assottigliano: non solo Zapatero torna a casa, ma anche la General Electric e la Siemens hanno deciso di lasciare l'Iraq.
Così, il capitalismo sta facendo affari anche su una guerra che va di male in peggio, tanto da rasentare la disfatta di Bush: meno complici rimangono in ballo e più ricco sarà il bottino da spartire.
U.F.