Umanità Nova, numero 17 del 16 maggio 2004, Anno 84
A questo punto, resta solo da chiedersi il perché.
Perché, oggi, in questa fase così cruciale e
drammatica della guerra in Iraq, è scoppiato il bubbone delle
torture? Perché quello che, con evidenza, tutti sapevano e
alcuni denunciavano da mesi se non da anni, americani, inglesi,
italiani, Croce rossa, Amnesty international e chi più ne ha
più ne metta, è balzato alla ribalta in maniera
così dirompente? Perché l'orrore di pratiche consolidate
e gestite dall'alto, generalizzate e programmate dagli strateghi della
"lotta al terrorismo", trova solo ora tanto risalto sui media di tutto
il mondo? Sono queste le domande che i bravi democratici di tutti i
colori, colpiti brutalmente allo stomaco da questa tragica esposizione
delle nudità del re, devono cominciare a porsi. E nessuno creda
di convincerci, come ci ripetono ossessionanti e insopportabili, i
difensori d'ufficio della superiore civiltà occidentale, che lo
"scandalo" è venuto alla luce per la buona coscienza di qualcuno
e che una grande democrazia è tale proprio perché capace
di denunciare, condannare ed "elaborare" le sue colpe e le sue infamie
quasi fossero le scorie inevitabili di un fine ultimo nobile e
generoso.
Poche storie! questa Grande Democrazia, spalleggiata da meschini e
piagnucolanti alleati, non ha commesso un passo falso, non è
stata tradita da alcune pecore nere gettate prontamente in pasto alla
pubblica esecrazione, ma ha coscientemente pianificato, teorizzato e
organizzato il sistema di vessazioni e torture venuto oggi alla luce,
ha preso gli uomini e i metodi operanti nelle tragiche prigioni
d'America e li ha trapiantati ovunque si rendesse necessario affogare
nel terrore la capacità di resistenza delle genti cadute sotto
il suo controllo militare. Oggi si parla di Abu Ghraib, ma ci siamo
forse scordati di Kali Jangi, di Bagram, di Diego Garcia e... di
Guantanamo?
Sappiamo e andiamo dicendo da tempo, che la guerra in Iraq, e non solo
in Iraq, è al tempo stesso un gigantesco business economico e
l'episodio di un più vasto disegno strategico volto a imporre
l'egemonia statunitense a livello globale. Lasciando da parte le trite
facezie sulla volontà di portare libertà e benessere al
popolo iracheno, è chiaro che la posta in gioco è vitale:
il rilancio dell'economia americana con la ricostruzione e gli
stanziamenti all'industria bellica, il possesso di preziosissime fonti
di energia non sufficientemente sfruttate, il controllo di vie di
transito che non possono essere lasciate al "nemico", l'installazione
di basi militari in zone sempre più strategiche, l'affermazione
apodittica del diritto del più forte contro il cosiddetto
diritto internazionale. In poche parole, gli Stati Uniti stanno
giocando il loro futuro anche nei deserti mediorientali. E di questo
l'establishment americano ne è perfettamente consapevole. Quindi
non si possono fare errori.
La gestione dell'intervento in Iraq è un cumulo di errori, la
disastrosa dimostrazione dell'inadeguatezza, a medio e lungo termine,
della arrogante e aggressiva politica dei neoconservatori guidati da
Cheney e Rumsfeld. Incapacità di controllare il territorio,
deterioramento dei rapporti con le componenti inizialmente non ostili,
progressivo sfaldamento della tenuta della coalizione, elevato numero
delle perdite, prevedibile impossibilità delle imprese
"ricostruttrici" di svolgere il loro lavoro. Davvero un bel pasticcio,
e infatti, sul finire di aprile, è arrivato il primo segnale,
con due fra le maggiori multinazionali chiamate a rimettere in piedi
l'Iraq, Siemens e General Electric, che hanno abbandonato la partita.
Ed esattamente due giorni dopo sono state tirate fuori dal cassetto, e
hanno cominciato a girare, le prime foto delle torture di Abu Ghraib.
Non credo che sia un caso.
Appare evidente, ormai, che in Iraq le cose non possono andare avanti
così, e che si impone un cambio nella conduzione di tutta la
campagna. Com'è facile immaginare, altre lobby e altre stanze
del potere economico e militare, preoccupate per i loro interessi,
hanno studiato strategie alternative a quelle della fallimentare
gestione di Bush e accoliti. Il gioco si fa duro, siamo in guerra, e in
guerra tutto è permesso: anche nelle guerre intestine. Ecco,
dunque, portato su un piatto d'argento, lo "scandalo" capace, se non di
scalzare l'attuale amministrazione, di condizionarne, almeno, il
comportamento, imponendo un decisivo, e più "democratico",
cambio di rotta. Un avvertimento pesante agli strateghi del Pentagono,
apparentemente onnipotenti ma evidentemente sotto tutela e ricatto dei
potentati economici, un avvertimento con il quale, costi quel che
costi, si possano riprendere le fila di un progetto imperialistico,
ancora unanimemente condiviso nei fini ma non più negli
strumenti. E la pervicacia con la quale l'impresentabile Rumsfeld si
aggrappa alla poltrona, accompagnata all'accorta regia con la quale
sono centellinate le immagini della vergogna, la dicono lunga sulla
durezza dello scontro.
Indubbiamente il prezzo pagato sull'altare dell'immagine è
particolarmente salato, come salate saranno le cambiali che porteranno
all'incasso amici e nemici fuori e dentro gli Stati Uniti. Ma non tutto
il male viene per nuocere e gli effetti di questa sindrome
esibizionista (come alcuni l'hanno acutamente definita) con la quale
l'America ci mostra la propria perversa potenza, potranno avere, nel
lungo periodo, ottime ricadute. Questa apparente catarsi collettiva,
con la quale un intero paese crede di ricostruirsi una coscienza
vergine, e celebra la propria presunta superiorità morale
dimostrando al mondo di saper riconoscere e rimediare ai propri errori,
non diventa altro, infatti, che il prodromo di nuovi conflitti.
Conflitti, ancora una volta, giustificati e accettabili, perché,
come si sa, l'America è una grande democrazia.
Massimo Ortalli