Umanità Nova, numero 17 del 16 maggio 2004, Anno 84
Mentre l'attenzione mondiale rimane centrata sui due principali fronti della "guerra americana", quello iracheno e quello afgano, le ultime settimane hanno registrato l'improvviso infiammarsi della situazioni in due parti del mondo collocate ai margini della Russia e strategiche nella partita del controllo del corridoio eurasiatico e delle risorse energetiche dell'Asia Centrale. Si tratta delle situazioni del Kosovo e della Georgia. Il primo ormai da quattro anni protettorato NATO all'interno del territorio che fu della Jugoslavia prima monarchica e poi titina, l'altra resasi indipendente nel 1991 quando l'ex Unione Sovietica collassò definitivamente sotto i colpi della sconfitta radicale subita dagli Stati Uniti nel corso di quella che venne chiamata "Guerra Fredda".
La situazione kosovara è abbastanza nota: territorio storicamente serbo, abitato da secoli da una maggioranza albanese, nel corso del Novecento è diventato più volte terreno di scontro per gli opposti nazionalismi serbo e albanese. Reso autonomo all'interno della Repubblica di Serbia alla fine degli anni Sessanta, divenne terreno non solo simbolico di battaglia sia per il rilancio del nazionalismo serbo all'epoca della leadership di Milosevic sia per l'èlite albanese che trovò nella stretta di Belgrado all'autonomia della provincia nuova linfa per rilanciare il progetto irredentista. Il resto è storia di questi anni: la Serbia, sconfitta nella guerra di Croazia e Bosnia (1992-1995) e firmataria degli accordi di Dayton che ne ratificavano la ritirata da questi territori ma la riconoscevano come interlocutore rispettabile per l'occidente in generale e per gli Stati Uniti in particolare, si avvicinava sempre di più alla Russia storico alleato del nazionalismo serbo e utile a bilanciare l'appoggio tedesco e americano ai croati e al governo bosniaco. La Germania prima e gli Stati Uniti poi finanziavano e organizzavano anche militarmente la trasformazione di un piccolo gruppo politico kossovaro-albanese di ispirazione nazionalista con vaghi riferimenti ideologici alla variante albanese del maoismo, e dedito al traffico di droga con l'occidente, in un efficiente esercito di guerriglia depurato da ogni riferimento al maoismo e saldamente legato alla mafia kosovara installata negli USA, in Svizzera, in Germania e in Italia; era nato l'UCK, l'esercito di liberazione del Kosovo.
Questa operazione nasceva dall'esigenza comune di tedeschi e americani di penetrare nell'area geopolitica balcanica. La frantumazione della Jugoslavia è stata la modalità più diretta e rapida per ottenere questo risultato dal momento che il ridimensionamento dell'attore geopolitico jugoslavo in tanti piccoli attori dipendenti dall'estero per la propria sopravvivenza ed il proprio riconoscimento ha comportato una maggiore penetrabilità di quest'area e la progressiva espulsione del potenziale concorrente russo che, fin dai primi anni Ottanta cerca di ricostruire un rapporto positivo con gli jugoslavi e in particolare con la dirigenza serba. Su questa strada, però si scontrano anche le differenti ambizioni tedesche ed americane: i primi impegnati a controllare il corridoio 2 Amburgo-Salonicco, storica porta occidentale al commercio con Cina ed India e al trasporto di risorse energetiche dal Medio Oriente, mentre i secondi necessitano di impedire il controllo tedesco della porta d'Europa e intendono sostituirla con il corridoio Burgas (in Bulgaria) Durazzo (in Albania) più facilmente controllabile da loro e che in più avrebbe il vantaggio di sfociare verso un paese europeo come l'Italia, meno pericoloso della Germania per quanto riguarda le potenzialità come concorrente geopolitico. In pratica per la Germania si tratta di assumere il controllo delle strade del proprio commercio e della propria fornitura di materie prime, per gli USA di mantenere il controllo di queste strade al fine di impedire un futuro antagonismo da parte dei tedeschi e dei loro alleati francesi.
Per ottenere questo risultato entrambi gli attori usano gli stessi strumenti, prima il nazionalismo croato e bosniaco-musulmano (con liason pericolose nel secondo caso con l'estremismo wahabita), poi quello albanese in Kosovo. A questa preparazione seguirà la guerra a bassa intensità del 1998 nel territorio kosovaro che frutterà a Belgrado accuse di pulizia etnica nei confronti della popolazione albanese sostanzialmente infondate. Oggi sappiamo che furono gli incaricati USA e britannici interni ai gruppi di ispezione dell'OSCE in Kosovo a inscenare la farsa delle fosse comuni della popolazione civile; all'epoca nessuno contrastò efficacemente questa menzogna mediatica che portò prima alle trattative di Rambouillet e, dopo che gli jugoslavi respinsero la pretesa USA di rendere non solo il Kosovo ma tutta la Serbia un protettorato NATO, all'aggressione armata degli eserciti dell'organizzazione atlantica (compreso quello italiano) contro la Serbia. Al termine del conflitto il quadro divenne quello di un protettorato gestito dalle truppe americane, inglesi, tedesche, francesi, italiane e spagnole su tutto il territorio conteso, l'istituzionalizzazione dell'UCK come forza di polizia interna alla regione e la sua indipendenza di fatto dalla Serbia. Inoltre gli Stati Uniti, veri gestori della regione, utilizzarono il conflitto per la costruzione di Fort Bondsteel considerata la base USA più grande di tutta l'Europa e per rendere la loro presenza definitiva nell'area. Al conflitto in Kosovo seguirono quelli a intensità minore in Macedonia e nell'area albanofona a sud della Serbia dove gli attori politici albanesi sono sempre gli stessi già usati in Kosovo, o comunque si tratta di personaggi appartenenti agli stesi clan quando non alle stesse famiglie. Il risultato è una situazione di guerriglia riguardante il sud ovest della Serbia e la divisione di fatto della Macedonia tra l'area slava e quella albanese, dopo che l'UCK locale è andato al governo del paese in compagnia dell'ex partito comunista sulla base di una rigida divisione etnica del piccolo paese. Anche qui presenza di truppe NATO a guida americana e loro assoluta "impotenza" durante le offensive della guerriglia albanese. Come un copione che si ripete gli USA hanno ottenuto il controllo di tutto il corridoio rappresentato dal triangolo Macedonia-Albania-Kosovo sia nel senso della via da Salonicco alla Germania, sia in quello dalla Bulgaria all'Italia. Egemonia locale di formazioni politico-militari albanesi direttamente create dalla malavita che gestisce il traffico locale di donne, uomini, armi e droga, divisione dei territori su base rigidamente etnica e loro trasformazione in protettorati militari sono gli ingredienti del processo che è stato messo in piedi in tutta l'area. D'altra parte la soluzione inventata a Dayton per la Bosnia ricalcava già questo modello di gestire le crisi nelle aree strategiche della periferia principale d'Europa, con i bosniaco musulmani al posto degli albanesi e con i serbi a svolgere con piena riuscita la parte dei "cattivi".
La risistemazione del Kosovo, l'abbattimento di Milosevic e l'ascesa di Dijndic come leader serbo sembrava avesse assicurato la fine di questo processo dal momento che anche il paese più recalcitrante ad accettare l'ordine di Washington nell'area avesse imboccato la strada dell'assimilazione all'Occidente a guida americana. L'omicidio di Dijndic da parte di attentatori provenienti da quel singolare miscuglio di uomini dei servizi segreti, membri della mafia serba, paramilitari responsabili di migliaia di assassini in Serbia e in Bosnia, cantanti popolari, hooligan e uomini politici socialisti e nazionalisti e l'ascesa dell'ex presidente jugoslavo Kostunica, nazionalista moderato e filorusso, il cui destino sembrava quello della lenta scomparsa pochi mesi prima, hanno nuovamente imbrogliato le carte. La presenza russa che sembrava definitivamente cancellata dalla regione è tornata ad affacciarsi grazie ai buoni uffici di Kostunica con l'antico alleato. Kostunica alla fine di febbraio è anche riuscito ad assicurarsi il posto di Primo Ministro serbo grazie ad un'alleanza tra l'ala della DOS (l'alleanza anti Milosevic) che ha sempre fatto riferimento a lui, il partito Monarchico di Vuk Draskovic e - sorpresa! - il Partito Socialista di Milosevic che, nonostante il suo stato attuale di detenuto sotto processo davanti alla Corte Internazionale dell'Aja, ha anche ottenuto un seggio nel nuovo parlamento serbo. I primi atti di Kostunica sono stati di sfida all'ordine di Washington sia richiedendo la restituzione dell'ex presidente allo scopo di processarlo in Serbia, sia negando l'estradizione di alcuni responsabili serbi della guerra di Bosnia e di suoi orrori allo stesso tribunale internazionale. Poco prima dello scoppio dei disordini in Kosovo lo stesso Kostunica aveva avanzato una proposta per la cantonalizzazione del territorio conteso, favorendo la costruzione di amministrazioni locali etnicamente orientate a seconda delle zone. Questo progetto avrebbe favorito il mantenimento di una certa rappresentanza serba anche in zone come Pristina dove esistevano villaggi serbi all'interno di aree albanesi che avrebbero potuto essere scorporati in modo da creare unità amministrative in mano ai serbi. Questa prospettiva era del tutto inaccettabile per l'UCK che governa l'area e che da anni si muove per ottenerne l'indipendenza e la progressiva unificazione con l'Albania. D'altra parte i protettori NATO non avevano alcuna intenzione di permettere un reinsediamento serbo nell'area proprio oggi che la Serbia è guidata da un'amministrazione filorussa. La soluzione , quindi, è stata quella della pulizia etnica consumata ai danni degli abitanti serbi residenti in zone differenti da quella situata a nord del fiume Ibar, dove si trovano Kosovska Mitrovica e i villaggi vicini a popolazione serba. In pratica la proposta di Kostunica è stata interpretata nel senso di costituire le condizioni per il concentramento di tutti i serbi del territorio in un'unica zona, piccola e ai confini con la Serbia e la loro cacciata dal resto del paese. Oggi il pulviscolo di villaggi serbi situati tra Pristina e il fiume Ibar non esiste più, come da alcuni anni non esistono più i villaggi serbi e rom attorno alla città di Pec.
La cronaca dei fatti conferma questa interpretazione: dopo quattro anni di pulizia etnica strisciante da parte dell'UCK trasformato in polizia locale (TMK), di fatto coperta dalle truppe NATO che non sono mai intervenute ad impedire la distruzione di case o l'assassinio di elementi serbi, rom o di origine non albanese, la morte di tre bambini albanesi annegati in un fiume è stata l'occasione per i giornali e le radio kosovaro-albanesi di lanciare una campagna mediatica durissima contro i serbi del Kosovo ritenuti responsabili di quella morte. Il fatto che l'annegamento sia avvenuto in una zona dove non esistono villaggi serbi e dove nessun abitante non albanese si farebbe vedere per timore di lasciarci le penne non è stato assolutamente peso in considerazione. Nei giorni successivi partiva un'ondata di distruzioni ed assassini che colpivano in modo preciso la popolazione serba e rom della "zona albanese". Lo schema che si è ripetuto in tutti i villaggi è stato lo stesso, con alcuni morti, molte case e negozi date alle fiamme e la popolazione cacciata verso Mitrovica. D'altra parte le truppe NATO, teoriche garanti della convivenza etnica nel territorio sono intervenute esclusivamente a sfollare i profughi verso Mitrovica e a impedire che gli albanesi tentassero di oltrepassare il ponte sull'Ibar che separa Mitrovica nord (serba) da Mitrovica sud (albanese). Nei giorni successivi, a cose fatte, si è delineata meglio l'operazione e la sua portata ed è risultato chiaro che questa era stata pianificata da tempo dai comandi del TMK (l'UCK riciclato come polizia) utilizzando i propri ufficiali per la gestione e uomini provenienti dall'Albania (e, quindi, meno identificabili dai serbi piuttosto che dagli osservatori internazionali) per la concreta esecuzione del piano. Nel momento in cui la situazione internazionale e i rapporti Serbia-USA ne hanno consentito la messa in pratica questa è avvenuta in modo rapido e straordinariamente efficiente senza incontrare alcuna opposizione nelle forze di occupazione. Il messaggio inviato a Belgrado e, per interposta persona, a Mosca è chiarissimo: non pensate di poter ancora mettere parola sul Kosovo; quel territorio è protettorato NATO a gestione albanese e tale rimarrà. L'unico territorio che viene concesso alla popolazione serba (e, quindi, all'intromissione di Belgrado nella gestione) è quello a nord dell'Ibar. Ogni tentativo di allargare l'interferenza dei due paesi nell'area verrà rispedito al mittente senza tanti complimenti.
La Serbia di Kostunica, intenzionata ad alzare nuovamente la testa sulla situazione nel Kosovo incassa un colpo molto duro e la stessa Russia ottiene un'altra dimostrazione della sua assoluta insignificanza nei Balcani. Questo smacco, oltretutto brucia di più oggi, quando la presidenza Putin assume sempre di più il significato di un tentativo russo di tornare a giocare in proprio sullo scenario internazionale liberandosi del pesante controllo esercitato da Washington nei confronti di Mosca fin dall'era Eltsin.
Dimostrazione del difficile momento attraversato dalle relazioni Mosca-Washington sono anche gli avvenimenti in Georgia, repubblica caucasica della quale ci siamo occupati recentemente (vedi "Georgia: giochi di potenza tra USA e Russia. Missione incompiuta" in UN n° 4 del 2004) per gli avvenimenti che hanno portato alla defenestrazione del decennale presidente Shevardnadze e la sua sostituzione con il leader delle forze nazionaliste locali, Saakashvili. Quest'ultimo, formatosi negli Stati Uniti è stato fortemente appoggiato da Washington nella corsa alla presidenza. Gli USA non avevano lesinato di fondi e l'ambasciatore presso il paese caucasico aveva più volte riunito i partiti di opposizione a Shevardnadze per concordare una lista unica alle elezioni parlamentari di dicembre. Davanti al successo delle liste collegate al presidente in carica Saakashvili ha orchestrato un vero e proprio golpe appoggiato dagli USA che ha portato alla fuga di Shevardnandze e all'indizione di nuove elezioni che lo hanno visto trionfare plebiscitariamente. Analogo risultato ha ottenuto alle nuove elezioni per il parlamento del paese tenutesi il 25 e il 26 di marzo, quando il suo partito si è aggiudicato tutti i seggi in palio. Questo risultato è venuto dieci giorni dopo che Saakashvili ha presentato in forma pratica il suo programma per la Georgia, cercando di penetrare alla testa di una colonna dell'esercito georgiano all'interno del territorio dell'Adzharia, una delle tre repubbliche autonome resesi di fatto indipendenti nel 1992 durante la guerra civile georgiana che vide trionfare la fazione di Shevardnandze su quella nazionalista. Le altre repubbliche, Ossezia del sud e Abkhazia combatterono una breve guerra per allontanare il potere centrale georgiano, l'Adzharia invece approfittò dello sbandamento del quadro di potere a Tibilisi per imporre la propria indipendenza di fatto. Naturalmente gli azari, non diversamente da osseti e abkazi ottennero l'installazione di basi russe sul proprio territorio come garanzia dalle mire del governo georgiano. D'altra parte i russi necessitavano di punti avanzati del proprio meccanismo militare nel territorio caucasico per condizionare Tibilisi che già allora mostrava di avvicinarsi a Washington. Nel corso degli anni la situazione si è incancrenita con la presenza militare russa sempre più folta e l'adesione sempre più convinta della Georgia all'operazione messa in campo da Washington per isolare la Russia dalle risorse energetiche del Mar Caspio e dell'Asia Centrale e rendere inutili gli oleodotti e gasdotti che attraversano l'area russa del Caucaso. La guerra in Cecenia è un aspetto di questa battaglia, il concepimento dell'oleodotto Baku-Ceyan (in Turchia) è l'altra faccia di questa stessa medaglia. Su quest'ultimo progetto (di taglio totalmente politico, i petrolieri americani si sono detti contrari per i costi troppo elevati) Shevardnadze, amico degli americani ma attento a non inimicarsi troppo Mosca, ha perso il posto. La preferenza di Washington è andata al giovane nazionalista che ha indicato due soli punti per il suo programma elettorale: portare a termine l'oleodotto e recuperare la sovranità su Adzharia, Abkhazia e Ossezia del Sud. La provocazione elettorale del 14 marzo che si è conclusa con la ritirata del corteo presidenziale davanti al blocco dei soldati adzhari e con la minaccia di Mosca di intervenire nel caso Saakashvili tentasse altre forzature si spiega con la collocazione dell'Adzhara che è compresa tra la Georgia e la Turchia ed è, quindi, essenziale alla costruzione dell'oleodotto, e con la minore forza militare della regione rispetto a quella dell'Ossezia e dell'Abkhazia.
Dopo l'incidente del 15 marzo, chiusosi con una mediazione che aveva visto il partito del Presidente svolgere a Batumi un comizio senza scorta armata e senza pubblico, la situazione è rapidamente degenerata con continue provocazioni da parte georgiana, le cui forze armate hanno prima svolto esercitazioni lunghe venti giorni nel mese di aprile ai confini della regione ribelle, e la cui marina ha poi chiuso nei giorni tra il 25 aprile e il primo maggio l'accesso al porto di Batumi accusando gli azari di svolgere attività di contrabbando con Russia e Turchia, accusa peraltro assolutamente fondata. Durante la prima settimana di maggio, infine, è avvenuta la sollevazione delle forze di sicurezza azare contro il proprio presidente che hanno portato alla sua defenestrazione e alla sua fuga a Mosca. Defenestrazione avvenuta, sembra, con il beneplacito delle Russia che avrebbe ottenuto da Saakashvili garanzie sulla continuità dell'installazione delle proprie basi sul territorio dell'Adzharia. Il gioco a scacchi quindi continua e se il Presidente georgiano può dire di aver ottenuto un successo significativo nella guerra dei nervi con la Russia, quest'ultima è tutt'altro che fuori gioco nella futura determinazione dell'assetto geopolitico del Caucaso.
Giacomo Catrame