Umanità Nova, numero 18 del 23 maggio 2004, Anno 84
Nella seconda settimana di maggio il governo ha deciso
all'improvviso di accelerare sulle pensioni. Al Senato è stata
posta la fiducia sulla delega-previdenza, dopo che per ben 15 mesi il
testo licenziato dalla Camera (ben diverso dall'attuale) era stato
ibernato in attesa di sviluppi da una trattativa con le parti sociali
che non è mai decollata. In questi mesi Maroni ha apportato
significativi cambiamenti al testo originale, tali da stravolgere il
progetto di legge del governo, e rivelatori della crescente debolezza
dell'esecutivo nel trovare mediazioni interne e costruire un fronte
compatto in vista dell'inevitabile scontro sociale. In realtà
è cambiato il carattere costitutivo della riforma: eliminata la
decontribuzione per i neo assunti e dilazionata l'entrata in vigore
delle nuove norme, il nuovo testo si inserisce perfettamente nel solco
della continuità, proseguendo il lento e graduale smantellamento
della previdenza pubblica cominciato da Amato nel 1992 e proseguito
ininterrotto con Dini e Prodi sotto le bandiere progressiste del
Centro-sinistra.
Il lavoro va avanti, insomma. Vediamo con quali nuove genialate ci troveremo a confrontarci nei prossimi mesi.
Il testo licenziato dal Senato lascia immutata la situazione fino al
31.12.2007, ad eccezione del fatto che chi matura il diritto alla
pensione, da oggi fino a quella data, potrà continuare a
lavorare incassando totalmente, esentasse, il 32,7% dei contributi
precedentemente versati dal datore di lavoro all'ente di previdenza. In
sostanza l'azienda non paga più l'Inps ma mette questa cifra in
busta paga, al netto, al suo instancabile dipendente. L'effetto
immediato di questa norma è incerto: le aziende non vedono l'ora
di liberarsi dei dipendenti più anziani e costosi e negli ultimi
anni l'effetto annuncio della riforma pensioni ha fortemente accelerato
l'uscita di tutti coloro in prossimità di una "finestra".
È probabile che l'effetto di "trattenuta" al lavoro sia nel suo
complesso trascurabile: le aziende preferiscono riassumere con
contratti di consulenza le risorse umane "strategiche" e cacciare con
vari metodi "convincenti" le persone in esubero.
Dal 1.1.2008 invece le cose cambieranno in misura più pesante:
fermo restando i 40 anni di contributi per il diritto alla pensione e
le attuali età anagrafiche per le pensioni di vecchiaia (65 anni
uomini, 60 anni donne), subiranno un drastico peggioramento i requisiti
per la pensione d'anzianità. Dal 2008 occorrerà infatti
avere 60 anni (61 per gli autonomi) e 35 anni di contributi per poter
smettere di lavorare, che diventeranno 61 anni (62 per gli autonomi)
nel 2010 e probabilmente, dopo una verifica nel 2013, 62 anni (63 per
gli autonomi). Resteranno escluse dalla riforma le donne, che potranno
continuare ad andare in pensione a 57 anni d'età e 35 anni di
lavoro, ma con una pesante penalizzazione economica, in quanto dovranno
necessariamente optare per il sistema contributivo.
Restano altresì esclusi, oltre ai lavoratori "precoci" ed i
10.000 lavoratori in mobilità in ragione di accordi siglati
entro il 31.3.2004, le forze armate, i militari e le forze dell'ordine,
che potranno continuare a godere delle norme attuali.
L'accelerazione del governo sulle pensioni coincide, per ironia
della sorte, con un analogo provvedimento in discussione alle Camere
che mira ad abbassare l'età pensionabile per i parlamentari, da
2,5 ad un solo anno di legislatura. Si tratta infatti di sanare una
"spiacevole" circostanza che si è venuta a determinare in
seguito alla elezione contestata di un senatore di Rifondazione
Comunista (Giorgio Malentacchi) e di uno dell'Udc (Gianluigi Magri).
Dopo che la giunta per le elezioni ha accolto il ricorso di due
aspiranti senatori di AN e dichiarato decaduti Malentacchi e Magri, si
è riusciti a salvare solo Magri (nominandolo sottosegretario al
Tesoro) ma non il senatore rifondarolo, che così si trova a
perdere la pensione. Andreotti ha ironicamente proposto di associare
anche Malentacchi al governo, ma il "sentire comune" dei nostri
rappresentanti preme per un'altra soluzione. Abbassare definitivamente
e per tutti i parlamentari ad un solo anno di legislatura il termine
minimo per maturare il diritto alla pensione!
Scherzi a parte, è evidente che crescono in misura scandalosa
privilegi e deroghe per i corpi separati dello stato e le élite
di governo, mentre peggiorano in concreto e in prospettiva i
trattamenti riservati al resto della società. I tagli alle spese
risparmiano infatti le strutture sociali delegate a costruire il
consenso e garantire passività sociale. È significativa
in tal senso la relazione trimestrale di cassa che fa il punto
sull'andamento della spesa statale: il finanziamento ai partiti
politici è passato dagli 85 milioni di euro del 2001 ai 105
milioni di euro del 2003 (+20%), attraverso l'innalzamento dei
contributi da 4 mila lire a 1 euro per elettore, per ogni anno
elettorale (quindi a 5 euro per legislatura); il finanziamento ai
patronati (in pratica ai sindacati) è salito da 166 a 367
milioni di euro; i finanziamenti alla Conferenza Episcopale della
Chiesa cattolica sono passati da 763 milioni di euro a oltre un
miliardo di euro.
Tornando alla riforma pensioni, va ancora affrontato un tema assai
delicato: i fondi pensioni e l'equiparazione tra tutte le forme di
previdenza integrativa esistenti. Attualmente un dipendente deve
aderire ad un fondo di categoria se vuole che il suo datore di lavoro
versi la sua quota di contributi per la previdenza integrativa. D'ora
in avanti può invece optare per una polizza assicurativa o un
fondo pensione individuale, e ciò non gli impedisce di
pretendere dal datore di lavoro il contributo aziendale e la quota in
maturazione del TFR da far confluire sul suo accantonamento individuale.
Il governo ha compiuto su questo terreno una evidente forzatura: pur
accogliendo la richiesta sindacale del silenzio-assenso (la
possibilità del lavoratore di decidere, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della nuova legge, se conservare il proprio TFR
o conferirlo alla previdenza complementare), il testo di legge mette
sullo stesso piano i fondi pensioni chiusi, i fondi pensione aperti e
le polizze previdenziali offerte dalle compagnie assicurative. Questo
fatto ha scatenato delle notevoli risse tra le varie lobby che aspirano
a gestire questo imponente flusso di risorse finanziarie: i sindacati
(principali protagonisti dei fondi pensione chiusi, di categoria), le
banche (forti soprattutto nei fondi pensione aperti), le assicurazioni
(principali beneficiarie dell'allargamento alle polizze individuali dei
benefici del provvedimento). Fabio Cerchiai (manager delle Generali e
presidente dell'Ania) ha salutato con entusiasmo il regalo del governo
e si è indignato per le polemiche e le critiche insorte,
esaltando la liberalizzazione del settore e la possibilità
individuale di scegliere a chi affidare i propri risparmi
previdenziali. Si è dimenticato di ricordare che su alcune
polizze si paga anche il 40% come commissioni d'entrata e spesso lo si
scopre solo dopo 30-40 anni di versamenti, quando è un po' tardi
per rimediare. Anche le banche non scherzano: i fondi pensione aperti
hanno commissioni d'ingresso molto contenute, ma le commissioni di
gestione (tra l'1.5% ed il 3% annuo) incidono comunque sui rendimenti e
quindi sulle prestazioni. I più onesti, sul fronte
commissionale, sono senz'altro i fondi chiusi, che generalmente si
accontentano di commissioni annue di gestione attorno allo 0,50%, ma
ciò non toglie che si vengano a creare degli enormi centri di
potere finanziari che vedono direttamente coinvolti i rappresentanti
sindacali, in un evidente conflitto di interessi. Lo spossessamento del
TFR maturando alle imprese sarà in qualche modo finanziato dallo
stato, attraverso prestiti agevolati, e può comportare, come
abbiamo visto, il dirottamento di imponenti risorse verso banche e
assicurazioni: in termini molto grossolani, possiamo dire che un
consistente flusso di risorse, che sono poi soldi dei lavoratori,
vengono trasferiti da impieghi produttivi a impieghi improduttivi, da
capitale industriale a rendita finanziaria. Senza fare del ridicolo
nazionalismo, possiamo altresì constatare che risorse produttive
domestiche verranno convogliate verso fondi d'investimento
prevalentemente esteri (specialmente quelli a contenuto azionario), in
un'operazione finanziata essenzialmente dallo stato, cioè da
tasse prelevate a lavoratori dipendenti. Il lavoratore si potrà
così trovare nella paradossale situazione di versare una quota
crescente dei propri contributi previdenziali a banche e assicurazioni,
in cambio di rendimenti incerti, e contemporaneamente pagare delle
tasse, che serviranno allo Stato per fare dei trasferimenti alle
imprese, che verseranno il TFR maturando a banche ed assicurazioni, che
li investiranno in obbligazioni dello stato e azioni di multinazionali
con i più forti trend di crescita. È abbastanza facile
prevedere che il sistema produttivo nazionale subisca un ulteriore
indebolimento, che si arricchisca il settore della rendita finanziaria
e che diventi più aleatoria la prestazione pensionistica finale
destinata a soddisfare i bisogni di reddito di larga parte della
popolazione lavorativa attuale.
Un'ultima domanda resta ancora senza risposta: perché il governo
Berlusconi accelera sulle pensioni proprio un mese prima di elezioni
decisive per la propria sopravvivenza, cioè le europee di
giugno? Si possono fare al riguardo varie ipotesi:
1) il testo approvato dal Senato soggiornerà alla Camera fino a
luglio, quindi la sua approvazione finale nel cuore dell'estate non
danneggerebbe più di tanto l'esito delle elezioni e troverebbe
una debole reazione dei sindacati, spiazzati dalla stagione.
2) le elezioni saranno comunque un mezzo disastro, quindi anche
approvare a tutta velocità la legge entro la fine di maggio
potrebbe essere addirittura una prova di coraggio e determinazione da
spendere verso ex-alleati (Confindustria), piccola impresa e censori
comunitari.
3) Berlusconi vuole fare della riduzione delle tasse l'argomento
principale della sua campagna, e per rassicurare la U.E. della
sostenibilità dei propri propositi deve dimostrare di non
scherzare sui tagli alle pensioni.
4) il governo doveva evitare l'"early warning" della U.E. ed infatti
è riuscito a rinviare al 5 luglio l'ammonimento ufficiale
sull'andamento preoccupante dei conti pubblici soltanto con questo
"segnale forte" della fiducia sul provvedimento pensioni.
Quale delle ipotesi corrisponda al vero, il movimento deve raccogliere
le idee e rispondere alla sfilacciatura dei provvedimenti graduali che
fa parte, organicamente, della strategia attuata dal governo
Berlusconi. Al di là dei soggetti che saranno chiamati a gestire
la previdenza pubblica o quella privata, si tratta di lottare per avere
un innalzamento di risorse destinate alla copertura pensionistica di
una popolazione che invecchia e che viene sostituita, nel ciclo
produttivo, da figure meno garantite e meno tutelate. Si tratta di
incrementare gli sforzi per "decrittare" i provvedimenti del governo,
imporre criteri di trasparenza su chi paga e chi incassa nel
cambiamento di utilizzo delle risorse contributive, fare decollare una
discussione allargata sull'uso delle risorse e sulle conseguenze
sociali, di lungo periodo, delle norme in discussione. I prossimi due
mesi rischiano di apparire decisivi.
Renato Strumia