Umanità Nova, numero 18 del 23 maggio 2004, Anno 84
I tiranni non nascono mai nell'anarchia, essi sorgono sempre all'ombra delle leggi, e sono da esse autorizzati.
(De Sade, Juliette)
Ci sono volute le foto aberranti delle torture e delle sevizie compiute
dalle truppe anglo-americane in Iraq per mettere di fronte alle
opinioni pubbliche democratiche il fatto che non solo certe cose
possono ancora succedere nel terzo millennio, ma che possono vedere
come protagonisti nei ruoli di mandanti, pianificatori ed esecutori
uomini e donne appartenenti alle forze armate di Stati "civili" che
formalmente ripudiano e condannano l'uso della tortura, che affermano
di riconoscere i diritti universali e che fanno parte dell'Onu.
Il paradosso è che la sensibilità collettiva si è
dimostrata una volta di più telecomandata, anche nello sdegno e
nella ripulsa morale, dato che davanti alle circa ventimila vittime
civili dei bombardamenti e dell'occupazione militare dell'Iraq i dati
riguardanti i casi di torture mortali diventano poca cosa.
In Italia, nella patria che fu di Cesare Beccaria, il trauma è stato minore, forse per assuefazione, dato che analoghe torture furono, impunemente, commesse dai militari italiani in Somalia una decina d'anni fa, nell'ambito della missione paradossalmente denominata Restore Hope (Ridare speranza); torture con l'elettricità, brutalità e violenze sessuali documentate anch'esse fotograficamente. E nelle caserme di Napoli e Genova, nel 2001, le forze dell'ordine hanno praticato soprusi, angherie, intimidazioni e pestaggi nei confronti dei manifestanti no-global in stato di arresto che in molti casi avevano tutte le caratteristiche della tortura, a meno che non si accetti la logica leghista che vorrebbe limitare da un punto di vista giuridico la definizione di tortura non lecita solo nel caso che questa sia "reiterata".
Ma, tra le tante reazioni lette e ascoltate dopo gli orrori commessi
su prigionieri in Iraq, in Afghanistan e a Guantanamo nell'ambito della
"guerra preventiva contro il terrorismo", va rilevato che ben pochi
commentatori politici si sono soffermati sul nesso storico esistente
tra tortura e Stato, così come sulla connessione tra tortura e
guerra.
Non appena la società passò da uno stato "primitivo" a
uno "civilizzato", e vennero promulgati i codici e le norme, la tortura
che fino ad allora era stata inflitta dall'uomo "selvaggio" per
soddisfare la propria sete di vendetta, si cristallizzò in una
determinata pratica, che trovò immediata giustificazione in un
preciso sistema punitivo: divenne così lo strumento, adottato
dal regnante in un paese autocratico o dallo Stato in un'oligarchia,
per costringere alla sottomissione all'autorità oppure, nel caso
di folle o di bande più piccole, per mantenere semplicemente la
disciplina.
La sua prima legittimazione veniva dalla sua efficacia, reprimendo e
prevenendo ogni ribellione contro l'autorità e i suoi principi
fondativi. Combattendo, l'uno il tradimento e l'altra l'eresia, sia lo
Stato che la Chiesa si avvalsero infatti di tale metodo basato sul
terrore.
Persino secondo la sua definizione legale corrente, la tortura è
una forma di violenza o un metodo di supplizio decretato dallo Stato ed
eseguito da ufficiali debitamente autorizzati o designati dalle
autorità giudiziarie, per cui risulta quantomeno elusivo parlare
e condannare il ricorso alla tortura senza mettere in discussione il
monopolio dell'uso della violenza - anche estrema e senza limiti - che
lo Stato assicura a se stesso, sia legalmente che illegalmente.
La borghesia e la monarchia inglese, ad esempio, si sono sempre
vantate e l'hanno fatto sino ad ieri, del fatto che nel loro paese la
tortura non sia mai stata praticata, in quanto non è stata mai
legalmente riconosciuta dalla Common Law britannica; sappiamo invece
fin troppo bene di cosa è stato capace l'imperialismo inglese
non solo nelle guerre e nelle dominazioni coloniali, ma anche in
Irlanda del Nord nella repressione contro gli indipendentisti
repubblicani.
Stesso dicasi per gli Stati Uniti dove la pratica della tortura non
solo non si è esaurita con la fine dello schiavismo, ma che ha
visto nel secondo dopoguerra la sua pianificazione nei campi militari
d'addestramento come una qualsiasi altra materia di carattere tecnico,
seguita dalle atroci applicazioni sul campo in Corea, Vietnam, America
Latina.
Da sempre "la guerra e la tortura - come ha scritto G. R. Scott - si tengono per mano. I motivi profondi che inducono un individuo a gridare vendetta contro un altro individuo, sono del tutto analoghi a quelli che spingono una nazione ad invocare il sangue degli abitanti del paese contro cui si trovano in guerra: il vangelo della nazione in guerra è quello dell'odio, i suoi scopi sono la vendetta e il guadagno. Una volta scoppiata la guerra, si può dire che la tortura è un fattore concomitante inevitabile. Anche quando i governi la denunciano apertamente e la proibiscono, nonostante ciò continua ad essere applicata".
E una volta messo fuoco il quadro criminale dell'esercizio del potere in uniforme, meglio si comprendono le responsabilità individuali degli aguzzini di Baghdad che, così come fecero i militari e i kapò nazisti, hanno sostenuto di aver semplicemente ubbidito agli ordini superiori; circostanza questa indubbia ma che non assolve i sorrisi, lo zelo e la creatività con i quali i carcerieri in mimetica di Abu Ghraib li hanno eseguiti, utilizzando le stesse celle e gli stessi strumenti del passato regime di Saddam Hussein. D'altra parte, come ha osservato il sociologo Wolfgang Sofsky, questo genere di guerre "attrarranno sempre più legionari ed aguzzini, per i quali la violenza è l'unica forma di vita concepibile" ma va anche sottolineato che, ancora una volta, la sicurezza dell'impunità unita al sapersi dalla parte dei vincitori e all'ideologia razzista ha generato dei mostri dal volto normale.
KAS