testata di Umanità Nova

Umanità Nova, numero 18 del 23 maggio 2004, Anno 84

Corridoi di ferro e sangue
Grandi opere: soldi pubblici per interessi privati



È del 5 maggio la notizia dell'accordo tra Italia e Francia per la costruzione della nuova linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione. Secondo i termini del documento, l'Italia finanzierà al 63% il costo (6,7 miliardi di euro) del "troncone comune", un tunnel di 52 chilometri a galleria doppia sotto le Alpi. Malgrado questo tratto sia per due terzi in territorio francese, la Francia si accollerà il restante 37% della spesa, contrariamente a quanto auspicato dal governo italiano che mirava, almeno, ad una divisione fifty-fifty.
Dall'ormai famosa televendita a "Porta a Porta" in cui, il premier liftato, illustrò con pennarello e cartellone una dozzina di interventi strategici di tempo ne è passato. In seguito, con il contributo del ministro Lunardi e dei rappresentanti delle regioni, che premevano per garantire una "fetta della torta" ai propri bacini elettorali, nella delibera del CIPE del dicembre 2001, le opere da mettere in cantiere diventarono 220. (CIPE Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica)
Successivamente il DPEF (documento di programmazione economica e finanziaria del governo) cercava d'introdurre un criterio di priorità individuando 21 opere di "serie A" che potevano diventare al massimo 36, con l'aggiunta di alcuni interventi complessi. Nell'elenco troviamo le tratte dell'Alta Velocità ferroviaria, una serie di strade e autostrade, il passante di Mestre, i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero, il sistema Mose contro l'acqua alta a Venezia, interventi idrici al Sud, ed infine, il ponte sullo Stretto di Messina.
Sono poche le novità rispetto al piano delle opere pubbliche di Lamberto Dini, stilato nel 1995, i governi Ulivisti non azzardarono però l'ipotesi dell'impresa faraonica del ponte sullo Stretto (anche l'Unione Europea ha evitato di sbilanciarsi finanziariamente su questo progetto).

Certo, nel dopo tangentopoli, la necessità di "vivacizzare" l'economia italiana è cresciuta sempre più prepotentemente, niente di meglio quindi che varare un piano per le "grandi opere".
Ma perché "grandi opere"? Semplice, queste sono disciplinate da leggi speciali che, in quanto tali, sono un utile strumento per aggirare quelle ordinarie.
Qual è il modello finanziario e contrattuale inventato per le grandi opere? È un modello messo a punto dalla trinità Berlusconi - Tremonti - Lunardi ispirati però dall'ex ministro Cirino Pomicino che per primo escogitò uno stratagemma finanziario per il progetto della TAV (la società dell'alta velocità ferroviaria). L'espediente Pomicino si basava sulla creazione di una società dalla costola delle Ferrovie, la TAV, attraverso la quale assegnare i lavori alle grandi imprese costruttrici (ENI, IRI, FIAT, COCIV). Poi, con l'introduzione del project financing si attivavano i finanziamenti privati, che sono prestiti alla TAV SpA (all'inizio questa società doveva essere per il 60% a partecipazione privata), garantiti al 100% dallo Stato.
Ora, se si sostituisce a Tav SpA, la Infrastrutture SpA e la Patrimonio dello Stato SpA (legge salva deficit n.112 / 2002) si ha lo schema finanziario per le grandi opere aggiornato secondo la versione "Pollo" delle Libertà.
Con il sistema del project financing i soldi arrivano in parte direttamente dallo stato, in parte dai privati (le banche), ma anche questi sono garantiti dalle finanze statali tramite società come la Infrastrutture SpA (società interamente pubblica ma sottoposta al diritto privato).

In questo modo si crea un debito occulto, un debito che non sarà iscritto nel bilancio dello stato, che non inciderà nel calcolo dei parametri del patto europeo di stabilità, ma che prima o poi dovrà essere saldato, allora la voragine apparirà nella sua imponente dimensione.
I sostenitori del modello grandi opere affermano che gli utili (tariffe e pedaggi…!) garantiranno entrate sufficienti a pagare i debiti. Secondo le più recenti stime, per la sola TAV, la quota che dovranno restituire alle banche sarà di 5.000 miliardi di vecchie lire l'anno contro i circa 500 che, ad essere generosi, se ne potranno ricavare dai biglietti ferroviari. La differenza? La pagheranno i cittadini (anche quelli che non prenderanno il treno!).

General Conctractor: un abile raggiro?

Tramite la legge obiettivo n.443 / 2001 (accompagnata dal D.L.190 /2002) viene introdotta la figura del General Contractor.
Il GC è, in pratica, un appaltatore generale dell'opera a cui lo stato ha affidato la responsabilità di progettarla, di realizzarla, di sub-appaltare, di effettuare i collaudi, ma non di gestirla per rifarsi delle spese. È un caso unico in Europa, poiché si ha un appaltatore con i poteri del concessionario, ma senza i rischi di chi gestisce l'opera. Detto altrimenti: il General Contractor lavora e incassa e se anticipa soldi li ottiene dalle banche con la garanzia dello Stato.
Con queste condizioni, il GC, non dovrà temere nel caso in cui i lavori… durassero più a lungo del previsto,… con il conseguente lievitare i costi, perché ciò non colpirebbe il suo interesse di impresa che non ha rischio di gestione.
Basta un'occhiata alle spese dell'alta velocità, per capire cosa è successo e cosa succederà: le tratte appaltate dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell'agosto del 2001 costavano 34.880 miliardi e si prevede che, al termine dell'esecuzione lavori, i costi saranno ancora raddoppiati e forse sfonderanno quota 75.000 miliardi delle vecchie lire.
A differenza del concessionario tradizionale, di lavori o servizi pubblici, il GC può agire in regime privatistico affidando i lavori anche a trattativa privata senza indire bandi di gara, non si potrà perciò più parlare di tangenti ma semplicemente di provvigioni.
Le amministrazioni locali vengono estromesse dal procedimento autorizzatorio, nel regolamento attuativo della legge obiettivo si legge che le Regioni esprimono le loro osservazioni "sentiti i Comuni" che esprimono perciò un parere meramente consultivo.
Paradossalmente, tutte queste deroghe alle normali procedure vengono giustificate con la necessità di favorire il contenimento dei tempi per la realizzazione di interventi strategici di interesse pubblico.

Grandi affari per i soliti noti e devastazioni ambientali

Dietro le grandi opere, quindi, grandi affari per i soliti noti e la minaccia di bancarotta per le finanze pubbliche, ma il danno non è solo questo. Dietro una facciata di modernità e di progresso in realtà si celano devastazioni ambientali, sfruttamento dei lavoratori, morti bianche, (non dimentichiamo le morti di Soledad Rosas e Edoardo Massari, legate alle lotte in opposizione dell'alta velocità in Val di Susa).
Sempre per non perdere tempo, gli studi di VIA (Valutazione d'Impatto Ambientale) per le grandi opere seguono una procedura semplificata, applicata al solo progetto preliminare, viene istituita una commissione speciale VIA composta da 20 membri scelti tra professori universitari e professionisti qualificati e dirigenti della pubblica amministrazione (ma chi li sceglie?).
Le terre e le rocce di scavo non devono più essere trattate come rifiuti speciali "anche quando, si legge testualmente nella legge 443/2001, contaminate durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempre che la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti". (Praticamente le sostanze inquinanti non sono più ritenute tali perché "diluite" nel volume complessivo della massa dei detriti derivati dagli scavi). Sono già evidenti, inoltre, fenomeni di prosciugamento di alcune sorgenti centenarie in seguito alla costruzione delle gallerie che "tagliano" il piano di falda. Non ci dilunghiamo poi su tutti i problemi di impatto ambientale che riguardano tanto la fase di realizzazione di questi "interventi strategici" quanto quella successiva d'uso.

Nuove strade: più lunghe, più larghe, più veloci

Continuiamo il ragionamento con qualche dato: il trasporto su strada rappresenta ormai il 44 % del trasporto merci, rispetto al 41 % della navigazione a corto raggio, all'8 % della ferrovia e al 4 % delle vie navigabili; il predominio del trasporto su strada è ancora più marcato nel comparto passeggeri che vede il trasporto su strada al primo posto con una quota di mercato del 79 %; il trasporto aereo, con il 5 %, si avvicina alla quota delle ferrovie, ferme al 6 %.
Benché i fenomeni di congestione del traffico si concentrino soprattutto nelle zone urbane, il fenomeno si è ormai diffuso in tutta la rete transeuropea dei trasporti: Il traffico è quotidianamente soggetto ad ingorghi su oltre 7.500 km di strada, pari al 10 % della rete complessiva.
Nel corso degli anni '90 la congestione di determinate regioni o determinati assi è andata via accentuandosi in Europa ed il cronicizzarsi di tale fenomeno minaccia ormai la competitività dell'industria europea. Alla congestione delle regioni centrali si accompagna, paradossalmente, un eccessivo isolamento delle regioni periferiche che necessitano disperatamente di migliori collegamenti con i mercati centrali per garantire la coesione territoriale dell'Unione. Questo si legge nel libro bianco dei trasporti realizzato per la commissione europea, ma, dopo che le scellerate politiche degli ultimi 30 anni hanno determinato questa situazione, cosa ci propongono…? La costruzione di altre strade, più lunghe più larghe, più veloci.
Con l'allargamento dell'Unione, si porrà inoltre il problema dei collegamenti con le infrastrutture prioritarie dei paesi candidati (da qui nasce il progetto dei famosi "corridoi"), il cui costo è stato valutato intorno ai 100 miliardi di euro.
La costante crescita della domanda di trasporto può essere spiegata da due fattori. Per i passeggeri, si tratta della crescita del parco macchine che, in trent'anni, fra il 1970 ed il 2000 si è triplicato, passando da 62,5 milioni di automobili a quasi 175 milioni.
Per le merci, la crescita è in gran parte legata all'evoluzione dell'economia europea e dei sistemi di produzione. Nel corso degli ultimi vent'anni, si è infatti passati da un'economia di "stock" ad un'economia di "flusso". Tale fenomeno è stato accentuato dalla delocalizzazione di determinate imprese (in particolare quelle ad elevata intensità di manodopera) che hanno cercato in tal modo di ridurre i costi di produzione, spostando determinate fasi della produzione a centinaia e talvolta migliaia di chilometri dal luogo di assemblaggio finale o di consumo.
L'eliminazione delle frontiere all'interno della Comunità ha contribuito allo sviluppo di un sistema di produzione "just-in-time" e di "scorte viaggianti".
Dal consumo energetico del settore dei trasporti derivava (dato del 1998) la responsabilità per il 28% delle emissioni di CO2, principale gas ad effetto serra; il trasporto stradale contribuisce in misura sostanziale all'incremento di tali emissioni, generando da solo l'84% della CO2 diffusa dagli scarichi imputabili al settore trasporti.
Ogni giorno il numero di morti sulle strade europee è praticamente pari al numero di passeggeri di un aereo di medie dimensioni, ma la tolleranza con cui vengono accolti gli incidenti stradali che ogni anno causano 41.000 morti è veramente stupefacente (a meno che non si concentrino al sabato sera).

Corridoi di cemento e ferro per le merci

È chiaro quindi che la spinta alla costruzione di nuove strade ed autostrade non è finalizzata alla tutela della salute umana né, tantomeno, al rispetto dell'ambiente, ma mira a sfruttare pienamente il mercato interno e le possibilità offerte dalla mondializzazione degli scambi commerciali.
Ogni giorno, ben 10 ettari di terreno vengono ricoperti da infrastrutture stradali. Tale politica infrastrutturale risulta particolarmente rilevante nelle regioni e nei paesi periferici che tentano in tal modo di promuovere il proprio sviluppo economico, i cosiddetti corridoi servirebbero quindi a superare le "strozzature" che rallentano lo spostamento delle merci influenzando, nella logica della "concorrenza senza confini", negativamente i profitti.
Il cerchio si chiude con la proposta dell'alta velocità ferroviaria… per controbilanciare (dicono) l'espansione del traffico stradale.
Ma negli stessi 30 anni presi prima a riferimento cosa è successo nel trasporto su rotaia?
Con 241 miliardi di tonnellate/km di merci trasportate nel 1998 rispetto ai 283 miliardi del 1970, la quota di mercato detenuta in Europa dalle ferrovie è passata dal 21,1 % all'8,4 %, in un periodo in cui il volume di merci movimentate è nettamente aumentato.
Nel corso dell'ultimo trentennio sono stati dismessi mediamente ogni anno in Europa 600 chilometri di binari, a fronte di un aumento medio annuo della rete automobilistica di 1.200 chilometri. Fra le tratte chiuse al traffico e talvolta addirittura smantellate, vi sono migliaia di chilometri che potrebbero oggi risultare estremamente utili quali alternative ad altri tronchi ferroviari ormai saturi (la velocità delle merci sui binari è diminuita da 30km/h degli anni '70 agli attuali 16 km/h,… alla faccia dell'alta velocità).
L'alta velocità non è indispensabile per una rivalutazione del trasporto ferroviario. Mentre l'impatto ambientale è pesante, quello sui passeggeri è limitato, infatti, il traffico che interessa le lunghe distanze è scarso, oltre i 500 km neppure i treni ad alta velocità sono competitivi con l'aereo. Sarebbe molto più utile un servizio efficiente sulle medie distanze o legato al problema del pendolarismo: chi usa quotidianamente il treno percorre distanze inferiori ai 100 km, per cui l'alta velocità non garantisce alcun vantaggio significativo. Per queste utenze, la criticità è legata ai rallentamenti causati da mal funzionamento dei locomotori, alla precaria manutenzione delle linee, alle mancate coincidenze e alla soppressione dei convogli.

Soldi pubblici per interessi privati

Come ci ricorda la campagna elettorale del cavalier Burlasconi, partita con i cartelloni elettorali da culto della personalità, sono previsti cantieri per 93.000 miliardi di lire (48 miliardi di euro sembravano pochi). "Ma chi ce li mette tutti 'sti miliardi, e in quali tasche vanno a finire?"
Queste opere non corrispondono ad un interesse pubblico, il rapporto costi benefici è del tutto sfavorevole sia da un punto di vista sociale che ambientale, soddisfa esclusivamente gli interessi dei grandi costruttori e l'idea del "territorio impresa". Un territorio impegnato a sviluppare relazioni con clienti verso i quali deve rendersi più attrattivo, sempre più coinvolto in un processo di crescente competizione.

L'impostazione liberista, secondo cui il mercato, anche nel settore dei trasporti, sarebbe in grado di determinare al meglio le scelte da un punto di vista ambientale, della sicurezza, del diritto a tutti della mobilità è assolutamente inadeguata. È necessario opporsi a questo nuovo scempio ambientale, allo sperpero di denaro pubblico, all'imbroglio dei governi che, in nome di una falsa modernità, favoriscono gli interessi oligarchici dei padroni del vapore.
Il nostro sostegno, naturalmente, va a tutti quegli individui, a tutti quei comitati che si sono attivati spontaneamente nella lotta contro le "grandi opere", con l'auspicio che la loro crescita, in un ottica autogestionaria, li determini quali soggetti attivi nella gestione diretta del proprio territorio e della qualità della propria vita.

MarTa

fonti:
Libro bianco sui trasporti
http://europa.eu.int/comm/transport/index_it.html
Notav http://digilander.libero.it/comsponpianezza/notav.htm
http://www.noautostrade.it
http://www.notangenziale.it










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