Umanità Nova, numero 19 del 30 maggio 2004, Anno 84
Non credo ci sia nulla di ideologico, o perlomeno non più di
tanto, nel sentirci e considerarci anarchici. E nel comportarci come
anarchici. Sono convinto che il nostro radicale rigetto di ogni forma
di coercizione e autoritarismo non parta solo da una coerente, lucida,
ma forse un po' fredda analisi della realtà, ma anche, se non
soprattutto, dal rifiuto, etico e morale, delle conseguenze che
coercizione e autoritarismo possono avere sulle esistenze. Le nostre e
quelle altrui. E dal rifiuto di rendersi complici diretti, o anche solo
idealmente partecipi (il che non fa grande differenza) delle nefandezze
che fanno parte della struttura e della sovrastruttura del potere.
E di motivi per confortarci in questa opinione ce ne sono. Quotidianamente. Purtroppo.
La guerra, si sa, è una brutta bestia. E non questa o quella
guerra, ma la guerra. È il luogo delegato per risolvere, senza
più gli infingimenti della regole democratiche o delle
convenzioni diplomatiche, le contraddizioni fra gli Stati o i gruppi
oligarchici che dominano il mondo. È il trionfo della forza
sulla ragione, della brutalità sulla natura, è il trionfo
della violenza istituzionale. Non stiamo dicendo cose nuove.
E in guerra le più infami porcherie sono all'ordine del giorno,
anche questo si sa. Ma per una sorta di falso pudore, o per il
tentativo di non esporsi troppo alla riprovazione delle false coscienze
che accettano, sì, la guerra, chiudendo però gli occhi di
fronte alle sue conseguenze, chi fa la guerra cerca, in un certo senso,
di centellinare l'orrore del suo mestiere. E anche se non siamo in
grado di giudicare se sia più oscena l'ipocrisia di chi finge di
non fare o di chi finge di non vedere e capire, spesso dobbiamo
registrare il tentativo di far passare la guerra, con le sue morti e le
sue distruzioni, come una asettica operazione la cui crudeltà
viene sapientemente tenuta sotto controllo.
Ogni tanto però, anzi, sempre più spesso, qualcosa
s'inceppa, e le "stragi degli innocenti" muovono, per un giorno, la
controllata ed educata indignazione dei bravi cronisti e dei bravi
cittadini. E così apprendiamo che nel nord dell'Iraq, in un
colpo solo, più di quaranta persone, in gran parte donne e
bambini, sono uccise dagli elicotteri americani che le avevano
"scambiate" per pericolosi guerriglieri. E così apprendiamo che
nella disgraziatissima striscia di Gaza, come se non vi bastassero le
morti consapevoli e volute, si ammazzano a colpi di cannone, per
sbaglio, decine di ragazzini, innocenti e disarmati, scesi in piazza
per protestare contro la distruzione delle proprie case. Due "errori",
due "tragiche fatalità", inopinatamente documentate da qualche
cronista onesto e sulle quali, quindi, non si è potuto stendere
il solito velo pietoso. Non sono le prime e non saranno le uniche,
quindi tanto vale riconoscere l'errore e porgere, educatamente e
sentitamente, le proprie scuse: credeteci, non volevamo, ma in
guerra... si sa!
Certamente, in guerra...si sa! Ma cosa si sa, perdio? che si muore per
errore? che è per errore che si sparano missili e colpi di
mortaio? che è per errore che si è indossata una divisa?
che è per errore che si obbedisce agli ordini, qualunque essi
siano? che è per errore che la bestialità repressa
dell'uomo trova finalmente una sua legittimità? e che è
per errore che ogni perdita inflitta al "nemico" è, comunque, un
obiettivo centrato?
Del resto queste cose, gli assassini in divisa le sanno perfettamente,
e infatti, rifuggendo una volta tanto dalla scontata messinscena delle
scuse, ci hanno fatto capire, con la "maschia" franchezza dei militari,
quanto considerassero "errori" i massacri di cui sopra. Il generale
americano James Mattias: "I marines hanno colpito un covo di
guerriglieri. Non devo scusarmi di nulla"; il capo di Stato Maggiore
israeliano Moshè Yaalon: "Siamo profondamente addolorati dalla
perdita di vite umane, ma l'operazione militare proseguirà
secondo i piani". Complimenti, complimenti davvero!
Sono sempre più convinto che il nostro radicale rigetto del
potere e delle sue escrescenze non parta solo da una lucida ma fredda
analisi della realtà, ma abbia davvero a che fare con un qualche
cosa che ci ostiniamo a chiamare etica.
Massimo Ortalli