Umanità Nova, numero 19 del 30 maggio 2004, Anno 84
Il Report del generale americano Antonio M. Taguba, dal freddo titolo
"Article 15-6 Investigation of the 800th Military Police Brigade",
è un burocratico scritto di poco più di 50 pagine e una
quantità sterminata di annessi, commissionato dal Comando
centrale delle forze armate Usa quando un oscuro soldato di stanza a
Baghdad ha inviato una precisa e circostanziata denuncia sulle torture
commesse da militari e civili nelle carceri irachene, corredata da un
cd pieno di foto digitali.
Sin dal maggio 2003 si era a conoscenza in loco e da parte di organismi
umanitari (Croce Rossa Internazionale, Amnesty International, Human
Rights Watch), che nei campi di detenzione le condizioni dei detenuti
(civili, ex-militari, cosiddetti resistenti, criminali comuni) stava
degradandosi ben più del normale degrado della condizione
carceraria in contesti normali (si fa per dire…). Evasioni e rivolte
erano all'ordine del giorno non solo nel famigerato Abu Ghraib (il 24
novembre 2003 ce ne fu una particolarmente cruenta), ma anche in altre
strutture, e i controlli interni lungo la linea gerarchica di comando
in loco sembravano non funzionare agli occhi degli stessi comandi
americani e in riferimento agli stessi manuali di detenzione militare,
che contemplavano sulla carta le norme internazionali delle Convenzioni
di Ginevra e relativi protocolli aggiuntivi nonché della
Convenzione contro l'uso della tortura.
Già un primo Report del generale Ryder nel novembre 2003 aveva messo in guardia, ma le testimonianze e le denunce raccolte nel periodo ottobre-novembre erano troppe e convergenti per essere tralasciate come desiderava il Pentagono.
La missione del generale Geoffrey Miller, comandante a Guantamano, in Iraq dal 31 agosto al 9 settembre 2003 era servita ad introdurre nuovi criteri informali di detenzione, sulla scorta del conflitto afgano: "è essenziale che i soldati di vigilanza siano attivamente impegnati a porre le condizioni per un ottimale sfruttamento dei detenuti" (pag. 8), ossia quell'ambiente di pressioni e intimidazioni idoneo per trarre quante più informazioni possibili ai carcerati per prevenire le mosse del nemico invisibile. La musica è israeliana, sino al 1999 addirittura la Corte suprema di Tel Aviv aveva legalizzato "moderate pressioni" al fine di ricavare notizie essenziali per sventare attentati fondamentalisti e palestinesi in genere contro gli israeliani; mentre in Afganistan qualcosa di simile aveva dato i suoi frutti con i miliziani taliban, in Iraq invece le carceri si erano ben presto riempite non solo di resistenti-aggressori contro le truppe di occupazione, bensì anche di civili colpevoli di essersi trovati al momento sbagliato in posti sbagliati, di delinquenti comuni che avevano approfittato della confusione per raccattare qualcosa, di ex-militari dell'esercito iracheno che il governatore Bremer aveva improvvidamente messo alla porta dopo averli incoraggiati alla diserzione. Sette-ottomila detenuti mischiati in condizioni già precarie di per sé, che ora dovevano essere interrogati non più da appartenenti alla Polizia Militare, bensì dagli uomini dell'Intelligence Militare, coadiuvati da un numero di contrattisti e interpreti civili più o meno spioni, ai quali dovevano essere assegnate le "operazioni di integrazione, sincronizzazione e fusione dell'intelligence, le attività degli interrogatori e le azioni carcerarie".
Oltre a configurare una incompatibilità con le carte umanitarie internazionali, oltre ad essere incompatibile con i regolamenti in vigore nelle forze armate Usa, oltre a creare confusione nella linea di comando interna nei reparti di stanza in territorio occupato, credete che tutto ciò abbia dissuaso qualcuno ad ogni livello dall'astenersi di fronte alle autorevoli indicazioni che provenivano, per lo più oralmente, dai vertici politici e militari? Ovviamente no.
La missione investigativa del gen. Taguba e della sua equipe (tra cui il Col. Henry Nelson, psichiatra dell'Aviazione statunitense) si è svolta nel mese di febbraio, ha raccolto testimonianze di oltre cinquanta tra sospettati, militari, detenuti, ha esaminato tutto quanto era accaduto dal 1 novembre in poi in fatto di "abusi, evasioni ed omissioni di funzioni" all'interno della 800th Brigata di stanza in Iraq, e si è concluso con la stesura e la consegna del Report il 9 marzo 2004, ben prima dello scandalo suscitato dalla pubblicizzazione delle imbarazzanti immagini, per usare un eufemismo… Dato che il Report reca in copertina la sigla ben messa in evidenza "Secret / No Foreign Dissemination", occorre capire non solo i fatti accertati, ma anche i retroscena della sua divulgazione.
Il Report individua i fatti commessi così sintetizzandoli: "un abuso sistematico e illegale sui detenuti è stato intenzionalmente perpetrato da numerosi appartenenti ai reparti di vigilanza carceraria della Polizia Militare" (pag. 16), segnatamente della 800th Brigata comandata dal gen. Janis Karpinski, fragile donna cinquantenne alla guida dal luglio 2003 sino al febbraio 2004, e in particolare: dalla 372th compagnia di PM comandata dal Cap. Donald Reese dal dicembre 2002 e sino alla sua sospensione il 17 gennaio 2004; dalla 320th Brigata di Military Intelligence, comandata dal Ten. Col. Jerry Phillabaum dal febbraio 2003 sino alla sua sospensione il 17 gennaio 2004; dalla 205th Brigata di MI comandata dal Col. Thomas Pappas dal 19 novembre sino al suo trasferimento il 6 febbraio 2004, nonché dall'ex ufficiale di collegamento e direttore dell'unità di investigazione Ten. Col. Steven Jordan. Tra le maglie dell'inchiesta è pure caduto il Cap. Leo Merck, comandante della 870th Compagnia di PM, nel cui computer è stato ritrovato materiale pornografico (e ricattatorio) di soldatesse nude a loro insaputa.
Il Report individua precise responsabilità in capo ad alcuni militari, i cui nomi ora sono sui giornali di tutto il mondo in quanto ritratti nelle abominevoli foto e video, ma anche di alcuni civili il cui status di riconoscimento all'interno delle carceri era ambiguo, e il cui potere forse addirittura superiore a quello dei militari addetti alla vigilanza, tra i quali Steve Stephanowicz, inquisitore della società privata californiana Caci, e John Israel, presunto interprete della Titan, i quali sono tacciati di falsa testimonianza e di essere "direttamente o indirettamente responsabili delle violenze ad Abu Ghraib" (pag. 48).
La tipologia delle torture è prevalentemente a sfondo sessuale, sino allo stupro vero e proprio: si gioca l'intimidazione e l'umiliazione come mezzo non tanto per fiaccare il morale avversario, quanto per degradare il nemico e farlo vergognare di sé e agli occhi della propria comunità di origine, e in questo caso il modello sembra essere quello balcanico, che a sua volta si nutriva degli esempi vietnamiti, che a loro volta eccetera eccetera sino a risalire la lunga catena storica delle infamie di guerra.
La prima flebile condanna ad un anno è stata già comminata, sospensioni e deferimenti alla corte marziali per gli alti ufficiali sono già scattati, ma i politici del Pentagono e le alte sfere militari a Washington non dormono sonni tranquilli. Già si vocifera di una consapevolezza dei fatti da parte del Comandante in capo delle forze di occupazione in Iraq, gen. Sanchez. Lo scandalo rientra a pieno titolo nella lunga faida che sta attraversando sin dall'11 settembre la Cia e il Pentagono di Rumsfeld, Wolfowitz e soci neocon che hanno inteso cogliere l'attentato per accelerare la loro strategia di dominio globale sul pianeta, di cui l'intervento in Iraq è un tassello a lungo termine.
Cia e media per adesso hanno segnato un punto a loro favore, mentre la guerra sul campo si è rivelata ben diversa dalla guerra in Afganistan, limitata al rovesciamento di un regime ma senza orpelli di democratizzazione esportata da imporre con la forza (il Presidente Karzai è nei fatti il sindaco di buona parte di Kabul, e null'altro).
La guerra in Iraq si sta rivelando uno scacco per Bush solo se la vediamo con lo sguardo di breve periodo: un popolo riunificato contro la potenza occupante che non si lascia dividere tra sunniti e sciiti, un rilancio dell'integralismo religioso, la ricomparsa sulla scena mediorientale dell'Iran, l'infiltrazione di terroristi sul suolo iracheno un tempo impossibile sotto la ferrea dittatura di Saddam, sono gli elementi che propendono per la sconfitta politica di Bush mentre il rientro in gioco dell'Onu, del resto già delegittimato agli occhi iracheni per il loro ruolo durante quell'embargo omicida che ha stroncato le vite di mezzo milione di bambini in dieci anni, senza scalfire la potenza del regime, non sembra risolvere la situazione dato che un eventuale comando dei caschi blu potrebbe essere affidato a guida non Usa solo se le regole di ingaggio, determinate dalla imminente nuova Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, prefigurino una forza debole e senza peso militare. Altrimenti, dato lo storico veto delle grandi affinché si dia realizzazione effettiva al Capo VIII della Carta dell'Onu, che prevedeva appunto sulla carta un esercito proprio delle Nazioni Unite, e non uno guidato da forze appartenenti alle grandi potenze coadiuvate dalle medie e piccole, è ovvio che a forti regole di ingaggio sul campo delle operazioni militari dei caschi blu la sua guida difficilmente sfuggirà dalle mani yankee.
A medio termine, Onu e Europa sembrano poter cantare vittoria, specie se vengono meno i tasselli italiani e inglesi legati alle sorti del programma di transizione di San Lakhdar Brahimi. Tuttavia, la costruzione di basi militari a stelle e strisce, i piani di presenza in Iraq per alcuni anni - come ci ricordano i memorandum riservati del Pentagono all'Ufficio Finanze del Congresso alla vigilia della guerra nel marzo 2003 - il controllo delle future forniture energetiche per i paesi potenziali antagonisti degli Usa (non tanto per sé, quindi, ma per monitorare e influenzare i ritmi di crescita e sviluppo politico, economico e militare della Cina, sopra tutti), l'ipoteca sui Saud nella vicina Arabia sembrano essere comunque obiettivi alla portata degli Usa nonostante (o forse proprio attraverso) il caos, il disordine, le sconfitte tattiche, la condivisione delle responsabilità nell'occupazione che segnerà la via di uscita da parte della coalizione dei volenterosi, con o senza il terzetto delle B: Bush, Blair, Berlusconi.
Secondo Noam Chomsky, la guerra in Vietnam, finita con la sconfitta militare Usa, ha rappresentato un successo politico perché ha ritardato lo sviluppo di quell'area per decenni, impegnata come era a fronteggiare i disastrosi effetti di una guerra sanguinosa e distruttiva, mentre ha cancellato ogni velleità di autonomia politica da parte dei governi dell'area per indurli minacciosamente a schierarsi necessariamente con una delle due potenze allora egemoni, col risultato di non minacciare più il duopolio in condominio (impari) e seppellire sogni di sviluppo endogeno al di fuori degli schieramenti obbligatori dell'epoca.
Forse sarà su questa scala di lungo periodo che andrebbero interpretate le mosse successive quali il rientro dell'Onu, misurando le capacità di intellegibilità politica del pacifismo e della sinistra che sembrano non aver colto nulla della strategia americana, tranne l'aspetto meno significativo della conquista di un petrolio la cui erogazione di appena 2,5 mln di barili al giorno è lungi dal ritornare ai significativi livelli pre-1990.
Salvo Vaccaro