Umanità Nova, numero 19 del 30 maggio 2004, Anno 84
Credo che la lettura delle statistiche vada fatta con molta prudenza per almeno due ragioni.
In primo luogo i soggetti istituzionali che producono statistiche sono, ad essere buoni, sospetti visti i loro legami con l'apparato statale, con il ceto politico, con i gruppi di potere economici. Basta, a questo proposito, ricordare i criteri di valutazione degli effetti dell'inflazione sui redditi da lavoro dipendenti e la bizzarra categoria di "inflazione percepita" inventata per spiegare il fatto che le persone "semplici" non si decidono a prendere per buona l'inflazione ufficiale.
In secondo luogo, anche nella migliore delle ipotesi, i dati statistici descrivono delle grandezze generali e rendono assai male conto della vita quotidiana delle persone che sono considerate, appunto, grandezze statistiche.
Per fare un esempio, quando, nel rapporto Istat per il 2004, si
afferma che due milioni e mezzo di famiglie sono sotto la soglia di
povertà e un milione e ottocentomila appena al di sopra della
soglia di povertà si sta dicendo, in realtà, che sono
cresciuti fortemente ed in una fase di stagnazione economica, le
differenze sociali visto che, dal punto di vista statistico, la
povertà è la condizione di chi ha un reddito inferiore
alla metà di quello medio. Si tratta, con ogni evidenza, di una
povertà moderna derivante dalla riduzione dei salari e delle
pensioni e dall'aumento del costo dei servizi sociali in una situazione
generale che vede la dissoluzione delle tradizionali reti di
solidarietà precapitalistiche quali la famiglia allargata, la
comunità di paese ecc…
In sintesi, un quinto della popolazione di una grande potenza
industriale è stata spinta ai margini di una sussistenza
"normale" dal modificarsi del mercato del lavoro, dal taglio delle
pensioni, dalla riduzione dei servizi sociali minimi.
Se calcoliamo, in tendenza, gli effetti della riforma delle pensioni che il governo ha deciso di imporci, è perfettamente evidente, che i "nuovi poveri", altra simpatica definizione venuta di moda da qualche tempo, sono destinati a crescere se non si svilupperà una mobilitazione sociale capace di invertire la tendenza.
Proviamo a scavare un po' più a fondo nei dati che ci sono proposti:
"Si paga di più per servizi che un tempo erano gratuiti o
poco costosi, tanto per cominciare. In dieci anni le famiglie hanno
versato più del doppio per la sanità: dai 10 miliardi di
euro del 1991 si è arrivati ai 22 miliardi del 2001, con un peso
della spesa privata su quella totale salito dal 17,3 al 22,6 per cento.
Nel frattempo la sanità pubblica ha stretto la cinghia: in
cinque anni i posti letto negli ospedali sono passati da 56 a 43 per
diecimila abitanti"
Da "La Repubblica" del 18 maggio 2004
Non è necessaria una straordinaria fantasia sociologica per
comprendere appieno l'impatto di questa tendenza in una società
che vede crescere l'età media. Se i ceti medi o, comunque, i
lavoratori dipendenti con un reddito decente possono affrontare, in
qualche modo, l'esigenza di cura degli anziani – basta, a questo
proposito, pensare all'incredibile numero di badanti "emerse" dal punto
di vista occupazionale negli ultimi anni – gli strati sociali a basso
reddito possono "scegliere" fra l'aggravio del lavoro domestico e
l'abbandono degli anziani alla loro sorte.
Come è noto, il taglio della spesa sociale a livello centrale si è scaricato sugli enti locali che hanno aumentato le loro spese su questo versante del 52% fra il 1998 ed il 2002 e, nel frattempo, le hanno scaricate sugli utenti che pagano i servizi sociali per oltre un quinto nel mentre, ma questo va da sé, la pressione fiscale in luogo di ridursi come era stato promesso al buon popolo ha continuato crescere e sui loro dipendenti attraverso l'esternalizzazione dei servizi.
La svolta "federalista" per quel che riguarda i servizi sociali ha, ovviamente, accentuato il divario fra nord (dove, in media, i comuni spendono in servizi 114 euro per mille abitanti) e sud (dove se ne spendono 83) a fronte del fatto che la grande maggioranza delle famiglie povere è collocata al sud.
Il nodo che viene al pettine non è solo il fatto che l'attuale governo ha accelerato ed aggravato una decennale politica di taglio del welfare ma anche la crisi profonda del capitalismo italiano, un capitalismo basato sulle piccole imprese, sul lavoro nero, sulla mancanza di investimenti in ricerca e in innovazione.
Per molti, troppi, anni abbiamo visto una serie di intellettuali prostituti cantare le sorti gloriose e progressive del modello adriatico di microimpresa familiare. Che il nanesco capitalismo italiano volesse liberarsi delle grandi concentrazioni operaie percepite come luoghi del conflitto sociale è comprensibile. Che, pur di farlo, abbia serenamente scelto la propria decadenza è altrettanto comprensibile, in fondo i "capitani coraggiosi" del capitalismo sono una realtà più letteraria che storica e la grande industria italiana ha sempre vissuto di commesse pubbliche.
Che il movimento dei lavoratori debba accompagnare questa decadenza è, invece, tutt'altro che scontato. Le recenti mobilitazioni del trasporto urbano, di quello aereo, della Fiat di Melfi qualche indicazione nel merito ritengo l'abbiano data.
Cosimo Scarinzi