Umanità Nova, numero 20 del 6 giugno 2004, Anno 84
Lo spettacolo della politica e la politica spettacolo trovano il loro
apice nella visita del re al suo fedele vassallo. Stiliamo queste note
a pochi giorni dall'arrivo di George II in Italia mentre il clima si
sta riscaldando ogni giorno di più in un crescendo di allarmismi
mediatici che ricorda pericolosamente le giornate che precedettero il
G8 a Genova. Ci auguriamo, ovviamente, che la farsa non scivoli
nell'ennesima tragedia in questi tempi bui di guerra permanente.
Migliaia di uomini in armi si accingono ad occupare Roma, migliaia di altri si preparano a contestare i signori della guerra, gli uomini in doppiopetto che mandano altri ad uccidere e morire. In nome della libertà, della democrazia, della civiltà. Una civiltà che posa su cumuli di cadaveri, sui bambini, le donne, gli uomini dell'Iraq, condannati a morte perché nati nel posto sbagliato.
Ribellarsi a questa manifestazione di potenza è giusto, per ragioni che afferiscono alla dimensione etica del nostro essere e voler essere uomini e donne liberi, alla nostra convinzione che il mondo in cui vorremmo vivere non può tollerare che i bambini muoiano in nome della libertà.
Bush II e la sua combriccola di affaristi ed integralisti religiosi ci raccontano che occorre fermare le truppe dello sceicco del terrore. Costi quel che costi. Riemerge così dalle tenebre la guerra giusta, quella che si combatte contro il nemico assoluto, la personificazione del Male, il diavolo del terzo millennio.
Il dio in nome del quale semina il terrore Bush è del tutto speculare a quello di Osama, il vecchio compagno di giochi del giovane George, che, come lui, è cresciuto tra un pozzo di petrolio ed una prestigiosa università. È il dio degli eserciti, dell'intolleranza, del fanatismo. Il suo volto feroce è impresso nelle cinture dei kamikaze come nelle granate dei marine.
Contro il maggior terrorista del pianeta è doveroso opporsi, doveroso dire ad alta voce "non in mio nome, non con le mie braccia, non con il mio cuore: io non sono complice dell'orrore infinito in cui sta sprofondando il pianeta."
A Roma il 4 giugno. Certo, ma non solo.
In quest'ultimo anno abbiamo assistito al consolidarsi di un movimento di opposizione alla guerra potente e capriccioso come un fiume carsico, capace di grandi emersioni in occasione di appuntamenti nazionali mediaticamente pompati, ma pronto ad inabissarsi nella quotidianità della lotta, incapace di radicamento. Un tale movimento rischia, al di là della indubbia buona fede di chi risponde agli appelli per le grandi manifestazioni, di risultare sostanzialmente ineffettuale, incapace di gettare realmente sabbia negli ingranaggi infernali del militarismo. Un militarismo che sempre più si alimenta alla fonte avvelenata di vecchi e nuovi nazionalismi, di vecchi e nuovi fanatismi. La retorica tricolore di cui si ammanta la destra vede una sinistra, anche quella "pacifista", sprecarsi in distinguo, affrettarsi a chiarire che la propria opposizione al conflitto non può certo confondersi con posizioni antimilitariste. D'altra parte, e con buona pace delle tante anime belle del pacifismo arcobaleno, questa sinistra ha sin troppe volte chiarito che ci sono guerre giuste – quelle che si fanno quando si è al governo – e guerre sbagliate – quelle che scoppiano quando si siede sui banchi dell'opposizione. Tra le macerie del Kossovo e tra quelle di Baghdad è difficile cogliere queste raffinate differenze, sapere che la granata che ci uccide, la bomba che ci sventra la casa, il tumore che ci rode le carni sono piombo, acciaio e uranio umanitari. Magari con tanto di mandato dell'ONU.
Ad una settimana dall'appuntamento elettorale del 12 e 13 giugno è indubbio che "l'amico George" viene a girare un gigantesco spot pubblicitario per il Silvio nazionale ma, e su questo sarebbe ingenuo nutrire dubbi, la sinistra, quella "americana" con bandiera arcobaleno alla Prodi e quella "pacifista" che scenderà in piazza tenteranno di rivoltare contro l'inquilino di Palazzo Chigi, l'operazione mediatica intrapresa. Un'operazione pericolosa sia per il governo che per l'opposizione, che giocano le loro carte sul filo del rasoio.
Correre il rischio di affrontare la piazza ad una settimana dal voto segnala l'affanno della combriccola berlusconiana di fronte a questa tornata elettorale di mezzo termine. Almeno nella Roma imperiale si offriva al popolino "panem ed circenses". Oggi, visto che a troppi tocca tirare la cinghia per far dimenticare i disastri di due anni e mezzo di governo, ci vengono offerti tutti i migliori prodotti dell'industria circense moderna, leoni, gladiatori e topolini ammaestrati compresi.
D'altra parte la sinistra istituzionale si trova con una bella patata bollente da gestire al punto che Liberazione e Manifesto lanciano la manifestazione e, insieme, pubblicano inserti sulla faccia buona dell'America. Un gran bell'affannarsi per non passare da anti-americani. Certo la combriccola degli anti-americanisti – al governo, all'opposizione o extraparlamentari – raccogliendo vecchi arnesi dello stalinismo e fascisti più o meno rispettabili, risulta decisamente indigesta, tuttavia tanto agitarsi finisce con l'assumere una venatura decisamente penosa. È evidente che l'internazionalismo che ha segnato il movimento dei lavoratori sin dalle proprie origini, tanto da esserne un carattere distintivo imprescindibile, si è ormai dileguato insieme al progetto di un'umanità emancipata dalla tirannide capitalista e statale. E allora non potendo – e non volendo - più richiamarsi all'internazionalismo proletario, la sinistra marca in modo inequivocabile il proprio declino dividendosi tra anti-americanisti che sventolano le bandiere irachene e "americani" di sinistra, che si arrabattano in distinguo inutili. O, per meglio dire, che inutili dovrebbero essere per chi crede che la pace non si possa scindere dalla giustizia sociale, non certo per una sinistra il cui programma più ardito si potrebbe riassumere nello slogan "un capitalismo dal volto meno inumano".
Di fronte ad un quadro in cui l'impegno di tanti uomini e donne che venerdì a Roma manifesteranno contro il re ed i suoi vassalli rischia di diventare una pedina nello scacchiere elettorale serve una riflessione attenta, per riuscire a cogliere le possibili trappole, elaborando una dimensione progettuale che ci consenta di evitarle.
Occorre insomma un salto di qualità, quel salto per il quale gli anarchici e le anarchiche stanno impegnandosi a fondo sin dalle giornate del G8 a Genova. La scommessa, oggi come allora, è quella di coniugare la radicalità dei nostri obiettivi – opposizione alla guerra ed al militarismo – con una capacità di radicamento sociale quotidiano, con l'intelligenza nell'individuare i modi ed i tempi nei quali scendere in piazza, al di fuori del circo mediatico, che finisce con lo stritolare tanti.
Questa sinistra che invita a tirare fuori dalla naftalina le bandiere arcobaleno, ignora che una minoranza di ribelli testardi non le ha mai tolte dai balconi, perché sa che l'opposizione alla guerra non si fa con un paio di riti collettivi di massa l'anno ma ogni giorno, in ogni luogo. Questa sinistra che invita a scendere in piazza ad una settimana dalle elezioni, si guarda bene dall'impegnarsi contro le produzioni di morte, le basi militari, la cultura nazionalista e guerrafondaia che invade le nostre vite. E la stessa sinistra che evita con cura di affrontare il militarismo sotto casa.
Fermare la guerra, spezzare le catene del fanatismo religioso, delle frontiere sempre chiuse per i derelitti della terra impone un impegno che, pur non ignorando i grandi appuntamenti, sappia radicarsi nei territori e farsi promotore di iniziative di carattere comunicativo, capaci di creare relazioni, costruendo un'opposizione alle politiche guerrafondaie che capace di coniugare l'afflato etico all'azione diretta, non delegata a nessun parlamento.
Lo scorso sabato a Livorno gli anarchici e le anarchiche hanno fatto un piccolo passo in questa direzione, manifestando contro la guerra ed il militarismo in una città, sul cui territorio da oltre mezzo secolo i "liberatori" americani hanno impiantato un base di morte. Da Camp Darby partono ogni settimana i rifornimenti e le truppe diretti in Iraq. Ogni giorno nelle centinaia di postazioni militari, aeroporti, poligoni di tiro, caserme del Bel Paese si amplifica la logica di morte e sopraffazione. Contro questa logica siamo scesi in piazza a Livorno, contro questa logica il nostro impegno è sempre stato costante sia nei tempi bui della guerra permanente, sia in quelli della pace armata.
Che il re ed il suo vassallo siano assediati nelle loro fortezze il 4 giugno a Roma. Ma, se non vogliamo che sia soltanto "ginnastica" preelettorale, bisogna che l'assedio continui ogni giorno. Dappertutto.
Maria Matteo