testata di Umanità Nova

Umanità Nova, numero 20 del 6 giugno 2004, Anno 84

La resistibile decomposizione dell'Iraq americano
Un pantano senza uscita?



Le ultime settimane hanno accelerato il processo di decomposizione della struttura creata dall'occupazione a guida angloamericana in Iraq. Il precario equilibrio costruito dal proconsole americano Bremer coinvolgendo all'interno della struttura politica del paese i partiti delle più svariate opposizioni al regime baathista e alla dittatura tribale di Saddam Hussein è andato in pezzi. Nondimeno la resistenza contro l'occupazione coinvolge ora settori politici e religiosi che all'inizio si erano messi alla finestra aspettando di capire quale sarebbe stata la direzione dei nuovi padroni di Baghdad e altri che inizialmente avevano deciso di collaborare con il governo provvisorio nonostante la sua smaccata natura di governo coloniale e di strumento di riciclaggio della vecchia élite mafiosa irachena spazzata via dall'insurrezione militare di Qassem nel 1958, e della quale il bancarottiere Chalabi è l'esponente più noto nonché più rappresentativo del miscuglio di affarismo e cialtroneria che ha sempre connotato il gruppo di famiglie che negli anni Venti del Novecento si misero al servizio dell'Impero coloniale inglese e della dinastia Hascemita che regnava sul paese inventato a Londra.

La situazione, comunque, è in continuo mutamento e le ultime notizie segnalano con chiarezza come l'obiettivo che le varie fazioni di insorti stanno cercando di ottenere è il controllo diretto delle città. Gli sciiti più decisi nell'opposizione a Bremer e al futuro governo coloniale stanno cercando di ottenere quello che le tribù sunnite hanno ottenuto a Falluja e nel cosiddetto "triangolo sunnita": la ritirata delle truppe di occupazione dalle città e la scomparsa dell'autorità provvisoria di occupazione. La riuscita di tale obiettivo porterebbe il paese in una situazione di molteplicità di poteri: gli occupanti nelle loro basi e attorno ai campi petroliferi (anche se l'attentato al terminale petrolifero di Umm Qasr ha dimostrato che le truppe della coalizione colonialista non controllano pienamente neppure la rete di trasporto del greggio iracheno), gli esponenti sciiti nelle città del Sud e nell'immensa periferia di Baghdad, quelli sunniti a Baghdad e nel cento del paese, le milizie curde filo americane nel Kurdistan. Una situazione da incubo per i piani di Washington i cui strateghi hanno cercato e alimentato il conflitto con qualsiasi forza potesse rappresentare un'opposizione all'asservimento del paese, ma che non pensavano di creare un meccanismo il cui controllo sembra essere sfuggito di mano agli Stranamore denominati "neoconservative", veri responsabili delle strategie belliche degli USA.

A proposito di questi ultimi, la vicenda relativa alla scoperta delle torture inflitte dalle truppe di occupazione, e in particolare dalla soldataglia americana, agli iracheni detenuti all'interno del famigerato carcere di Abu Grajib, già luogo di torture e detenzione per gli oppositori di Saddam, ha determinato l'eclissi politica di questa lobby il cui unilateralismo nutrito di disprezzo per qualsiasi regola di diritto internazionale e di ammirazione per il sionismo bellicista della banda Sharon è il principale responsabile della strategia di dominio basata sulla ricolonizzazione dei paesi del Sud del mondo le cui ricchezze siano fondamentali per le moderne economie capitalistiche. Oggi gli Stati Uniti sono ad un bivio tra la scelta di "irachizzare" il conflitto (così come 21 anni fa dopo gli accordi di Parigi "vietnamizzarono" quella guerra, di fatto abbandonando i loro ridicoli alleati locali), accettando nei fatti la sconfitta politica e militare e cercando di rimontarla su di un piano geopolitico e geoeconomico, o passare ad una sorta di "cambogizzazione" dello stesso, così come fece Nixon nel 1970 quando cercò di piegare i Viet Cong invadendo il vicino paese asiatico. Questa volta potrebbe essere la Siria, recentemente nuovamente inclusa nella lista nera dei paesi che aiutano il terrorismo e contro la quale gli USA hanno annunciato durissime sanzioni, a fare la parte del paese dell'allora principe Norodom Shianouk. Una mossa di questo genere sarebbe in perfetto stile neoconservatore e rientrerebbe nelle modalità assunte in questi quattro anni dal Pentagono di Rumsfeld di affrontare la realtà di un pianeta all'interno del quale l'ostilità contro i metodi di dominio degli USA è in rapida crescita: un continuo innalzamento del livello di scontro e un disprezzo assoluto per la politica internazionale come mediazione tra forze tra loro asimmetriche ma tutte in grado di colpire l'avversario, sia pure con metodi diversi. La furiosa campagna stampa della maggior parte dei media americani (tranne quelli ça vans dire di proprietà del magnate australiano e finanziatore nemmeno occulto di Bush e Blair Rupert Murdoch) contro le torture e contro le responsabilità in queste di Rumsfeld, la richiesta di dimissioni di quest'ultimo presentata quotidianamente a Bush, l'affollarsi attorno al rivale Kerry di tutto l'estabilishment non neoconservatore della destra americana, lo stesso fatto che gli alti gradi dell'Esercito abbiano non solo permesso ma promosso la pubblicizzazione dei risultati dell'inchiesta Taguba sulla tortura in Iraq, però, ci dicono che una parte consistente se non maggioritaria dell'élite americana ha deciso che l'esperimento della guerra permanente è controproducente per le possibilità di mantenimento del dominio americano sulle relazioni internazionali e sull'economia mondiale. Le recenti dichiarazioni del segretario di stato Powell e dello stesso maraja americano in Iraq, Bremer, secondo i quali dopo la formazione di un governo autonomo iracheno previsto per il 30 giugno, saranno gli stessi iracheni a decidere se mantenere o meno l'occupazione americana suonano fin troppo precise: una parte consistente delle classi dominanti americane non si domanda più se mantenere il paese asiatico occupato o meno, ma come e quando sganciarsi dal pantano.

Il problema maggiore per gli USA in un passaggio di questo genere è quello di come riuscire a mantenere il dominio del paese passando la mano per quanto riguarda la gestione della vita quotidiana ad un governo dotato di credibilità ma deciso a non mettere in questione la presenza delle 14 basi americane sul territorio del paese e a non abrogare le disposizioni costituzionali che hanno reso l'Iraq (così come avvenne per il Cile dopo il golpe di Pinochet) il paese al mondo più favorevole all'opera delle multinazionali, abrogando ogni settore pubblico, ogni controllo statale sugli investimenti e sul commercio con l'estero, abbattendo le tasse al 15% ed esentandone le imprese straniere che abbiano intenzione di entrare sul mercato iracheno: il paese del bengodi capitalistico. Inoltre il problema americano è quello di continuare a controllare sotto mentite spoglie esercito e polizia locali e a decidere quali siano i paesi le cui multinazionali siano ammesse a godere dei vantaggi di questo Eden capitalistico. 

È evidente che il piano elaborato dall'inviato ONU per l'Iraq (tra l'altro già inviato ONU per l'Afganistan) Laktar Brahimi è sostanzialmente un concentrato di buoni propositi costruito per permettere agli USA di figurare in modo meno negativo agli occhi del mondo: governo provvisorio a guida irachena dopo il 30 giugno ed elezioni a gennaio del 2005. Vedendo la situazione sul campo risulta evidente che entrambe le opzioni sono irrealizzabili se non nella forma di farsa. Brahimi tra l'altro, confermando la natura servile dell'ONU verso Washington, ha riaffermato nel piano l'intangibilità della Costituzione liberista del paese già respinta da tutti i partiti sciiti e sunniti del paese e appoggiata solo dai curdi e dall'élite di mafiosi cui l'occupazione ha permesso di rientrare nel paese prendendo il controllo delle principali fonti di spesa.

I PARTITI IRACHENI
L'equilibrio tra i partiti iracheni è comunque in via di rapido mutamento: nell'area sunnita il Baath, liberato dall'ormai scomodo padrinaggio di Saddam Hussein si sta trasformando in un partito nazionalista laico potenzialmente in grado di catturare consensi in tutto il paese tra i molti dipendenti pubblici cacciati dall'amministrazione americana, ad esso si affianca il Partito Islamico nazionale, di credo sunnita ma a base nazionalista e non panislamica, nel centro e nel nord del paese si sta poi affermando tra la popolazione cristiana la Democrazia Cristiana irachena il cui programma minimo coincide con quello dei primi due partiti ed è quello della cacciata degli angloamericani. In tutta l'area gli USA hanno dovuto fare i conti con il fatto che, al di fuori del bancarottiere Chalabi, non godevano di alcun sostegno da parte di nessun settore politico o sociale del paese. Gli stessi sindacati a lungo repressi da Saddam hanno lamentato di dover subire maggiori persecuzioni dal governo Bremer di quante non ne subissero sotto il regime baathista. Nel sud del paese l'insurrezione guidata da Moqtada al-Sadr ha scombinato le carte che vedevano gli USA controllare la situazione grazie al compromesso raggiunto con l'Iran, paese sciita e padrino del partito clericale Sciri (Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq). Quest'ultimo aveva annunciato l'isolamento del giovane ayatollah e del suo esercito del Mahdi. Gli eventi di questi giorni smentiscono questo previsione e ci rimandano un Sadr il cui seguito è in crescita, grazie alle vittorie che il suo esercito riporta a Bassora e Nassirija e grazie allo stallo al quale sta costringendo gli americani a Kufra e a Najaf, ma grazie ancora una volta all'incapacità politica degli USA che sono riusciti, nonostante il patto siglato con l'Iran, con il partito sciita maggioritario (lo Sciri) e la neutralità del secondo partito sciita (al-Dawa) e della principale autorità religiosa nazionale, l'ayatollah al-Sistani, a rendersi odiosi all'insieme della popolazione sciita grazie al tiro al piccione effettuato sui pellegrini in viaggio verso le città sante di Najaf e Kufra, ai bombardamenti alle moschee più sante per lo sciismo internazionale e all'irruzione dei carri armati nel cimitero di Najaf dove ogni buon sciita sogna di essere sepolto. La considerazione assolutamente nulla dei sentimenti di identità di un'intera popolazione ha ancora una volta portato gli USA a compiere atti le cui conseguenze sono evidenti nel senso di eccitare l'opposizione nei loro confronti, e ancora una volta l'amministrazione Bush dimostra di sapere perfettamente aizzare i conflitti e spingerli oltre il punto di non ritorno, ma di non saperli ne governare ne spegnere con la forza militare. Il patto siglato con l'Iran, inoltre, ha trovato l'ostilità della leadership laica e nazionalista dello sciismo iracheno che, ben lungi dall'essere telecomandata da Teheran, non ne desidera l'invadenza. Anche perché il modello di sciismo al quale si ispirano al-Dawa e al-Sistani (oltre va da sé al-Sadr) è quello laico di Hezbollah che prevede la separazione tra potere religioso e secolare e non quello khomeinista al potere in Iran. Inoltre al-Sistani e il partito al-Dawa hanno avuto il fondato timore non solo di essere assorbiti all'interno del patto Washington-Teheran, ma anche di perdere la propria influenza sull'area sciita di simpatie nazionaliste sempre più orientata verso il giovane ayatollah ribelle. Risultato: l'appello all'insurrezione degli sciiti è diventata la parole d'ordine anche delle autorità religiose e politiche fino ad ieri considerate moderate.

In generale in tutto il paese si sta affermando una posizione di rivendicazione dell'indipendenza del paese che travalica le differenti posizioni politiche e religiose o, meglio, le congela in attesa di affermarsi sugli occupanti. All'interno di questa logica è entrato anche il partito Comunista che, buon ultimo, ha abbandonato le posizioni di totale collaborazionismo con il governo Bremer precedentemente assunte. Più in generale l'affermazione di una posizione nazionalista ha attecchito in tutte le forze politiche davanti all'evidente volontà americana di costruire un paese totalmente dipendente da loro sul piano politico e militare e di fare delle sue ricchezze una questione interna agli USA. Di fronte a questa situazione è evidente che gli Stati Uniti non possono sperare di trovare delle forze politiche e sociali che li appoggino nel loro tentativo, fatta salva, ovviamente l'oligarchia mafiosa del Chalabi, della quale sembra che ora vogliano liberarsi. 

Giacomo Catrame












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