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Umanità Nova, numero 22 del 20 giugno 2004, Anno 84

Iraq. Neocolonialismo, resistenza e fondamentalismo religioso



La resistenza irachena si connota sempre di più come guerra anticoloniale; come tale può certamente trovare degli accordi con la potenza occupante, ma non tali da permettere a quest'ultima di mantenere il paese nella condizione di colonia. Qualsiasi sia la soluzione che gli USA (più probabilmente la nuova amministrazione) proverà a proporre alle forze della resistenza irachena per venire fuori dal pantano, questa dovrà contenere la modificabilità della Costituzione e l'abdicazione dello statuto iper liberista delle ricchezze nazionali.

Risulta del tutto chiaro come, in questa situazione, è difficile che gli USA trovino il consenso dei paesi europei e della Russia per imbellettare l'occupazione del paese innalzando la bandiera dell'ONU a coprire quella a stelle e strisce senza però mutare il regime di governo del paese. Dal momento che solo un governo iracheno effettivamente indipendente potrebbe garantire a europei, cinesi e russi di rientrare in gioco nello sfruttamento delle risorse energetiche del sottosuolo e nella determinazione della direzione dei flussi finanziari dei petroldollari, non è pensabile che questi paesi accettino un cambiamento che non muti nulla a Baghdad. Francia, Germania e Russia hanno già fatto capire che l'abolizione del controllo americano sugli investimenti esteri è la condizione che li porterebbe a gestire l'occupazione a fianco di Washington. Ottenuta ragione su questo punto non avrebbero problemi a ritenere del tutto valide le ragioni per le quali gli USA ritengono necessario mantenere 14 basi sul territorio iracheno, ed ovviamente troverebbero del tutto sensate le ragioni neocoloniali per le quali non esistono limitazioni al movimento dei capitali in Iraq. Questo con buona pace dei sostenitori della vocazione sociale dell'Europa e della differenza tra il capitalismo anglosassone e quello renano. Gli Stati Uniti, però, non sono nella possibilità di accettare l'apertura dell'Iraq ai propri concorrenti, e soprattutto a quei concorrenti che si siano rifiutati di appoggiare l'invasione e l'occupazione coloniale del paese. In un mondo sul quale dominano ma sul quale non hanno più alcuna egemonia, un comportamento del genere equivarrebbe all'ammissione del proprio declino e alla relativizzazione dei dominanti USA rispetto a quelli del resto del mondo.

Sintetizzando, gli USA hanno di fronte a loro la scelta tra restare nel pantano iracheno sperando di ottenere una definitiva vittoria militare che distrugga la capacità della resistenza di tener loro testa, "cambogizzare" il conflitto invadendo la Siria e rischiando un incendio generale del Medio Oriente e una sconfitta di dimensioni omeriche, "irachizzare" il conflitto mettendo in piedi un governo dotato di un minimo di credibilità interna che si impegni a gestire la "sicurezza" (leggi guerra alla guerriglia) del paese, permetta loro di ritirarsi nelle proprie basi e di continuare a controllare le risorse del paese. Naturalmente quest'ultima soluzione sembra la più sensata per Washington ma sconta la difficoltà di trovare un interprete locale dal momento che i disponibili appartengono a un'oligarchia sputtanata fin dagli anni venti per la loro acquiescenza all'Impero britannico e la loro insaziabile voracità mafiosa, mentre quei soggetti che avrebbero la necessaria credibilità non sono disponibili a fungere da truppe coloniali per gli USA. Anche l'accordo con l'Iran, come abbiamo visto, sembra non bastare… È probabile che, pressata dalle elezioni alle porte l'attuale amministrazione scelga di non scegliere, operando proclami roboanti e manovre puramente estetiche, mentre la probabile futura amministrazione Kerry dovrà prendersi l'onere di decidere per davvero. Quest'ultima, se ci sarà realmente, sarà un'amministrazione di destra, ma dall'impostazione più realista sui rapporti di forza e probabilmente più decisa a concedere qualcosa alle parti sul campo pur di evitare quella che si profila come una sconfitta disastrosa. Cosa avverrà da qui a sei mesi, comunque, è tutto da vedere e gli americani non saranno gli unici attori di un gioco che si è rivelato molto più complesso di quanto non credesse la pattuglia di consiglieri neoconservatori del presidente Bush.

IL RUOLO DI AL QAEDA

Per quanto riguarda la partita strategica che Washington sta giocando in Iraq rispetto a quella parte delle classi dominanti arabe che hanno deciso di scontrarsi con gli USA al massimo livello per ottenere il controllo delle risorse naturali dell'area e rendersi indipendenti dal controllo geopolitico e geoeconomico degli USA, si può dire che gli americani stiano perdendo punti anche lì. Se, infatti, l'influenza della rete islamica ispirata ad Al Qaeda negli avvenimenti iracheni sembra essere minima e più mirata a cercare di mettere nell'angolo i rivali sciiti che a portare un contributo alla guerra contro le truppe della coalizione, sul terreno principale di scontro, cioè l'Arabia Saudita, il fondamentalismo wahabita ha messo a segno un altro colpo di grande importanza attaccando un terminale petrolifero e uccidendo i tecnici stranieri che vi lavoravano. È del tutto evidente, oramai che la monarchia saudita non è più in grado di controllare il paese e che i fondamentalisti godono di protezioni ai livelli più alti della burocrazia militare del regno. Non diversamente si può dire per la situazione del Pakistan dove, dopo una farsesca caccia all'uomo ordinata dal Presidente Musharraf nei territori tribali che il governo centrale di fatto non controlla, il vice di Osama bin Laden, il medico egiziano al-Zawahiri, è sfuggito a tutti i controlli fatti sia dai pakistani che dalle truppe americane dall'altro lato del confine in Afganistan.

Dal momento che la strategia della galassia del fondamentalismo islamico è quella di prendere il controllo dell'Arabia Saudita per i suoi giacimenti petroliferi, e del Pakistan per il suo arsenale atomico, e che gli USA hanno occupato Iraq ed Afganistan anche per costringere questi due paesi a schierarsi in modo deciso a favore di Washington e contro i settori ribelli delle classi dominanti arabe ed islamiche, è chiaro come gli ultimi avvenimenti mediorientali siano seguiti con crescente preoccupazione in tutta l'èlite politica, economica e militare degli Stati Uniti.

Giacomo Catrame













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