Umanità Nova, numero 23 del 27 giugno 2004, Anno 84
La questione dell'acqua nel conflitto mediorientale non è
più un tema per addetti ai lavori, e sulla stampa anarchica
altri ne hanno parlato con maggiore competenza (si veda l'articolo di
Serena Marcenò sul n.4 di "Libertaria" di fine 2003).
L'opportunità di una conferenza all'Università di Palermo
del prof. Ziad Mimi, docente di Water Management all'Università
di Birzeit nei Territori occupati in Cisgiordania, ci ha offerto
l'occasione di ritornarvi sopra con qualche ulteriore dettaglio
esplicativo delle poste in palio nella guerra israelo-palestinese.
Innanzitutto si è svelato l'arcano dello scavalcamento a destra
che i coloni del Likud, una minoranza agguerrita in senso letterale e
non metaforico, hanno effettuato sul premier destro Sharon nel recente
referendum interno, rigettandone l'accordo di fuoriuscita dalla
striscia di Gaza. L'ubicazione delle colonie da evacuare in via
definitiva, infatti, insiste non casualmente su acquiferi costieri di
lunga data che sopravvivono tra le dune a bassa profondità, il
cui pompaggio alimenta non solo i pozzi a disposizione delle colonie,
ma anche le opportunità idriche per le comunità ebraiche
in pieno deserto del Negev, alle spalle cioè della Striscia di
Gaza, con un sovraconsumo per le entità demografiche israeliane
- col rischio di drenare tanta acqua (anche per usi stravaganti, dato
il clima, quali piscine, campi di prato all'inglese, ecc.) da abbassare
la faglia di acqua dolce lasciandola infiltrare dall'acqua salata del
vicino mar mediterraneo – che riduce di contro la disponibilità
per quel milione e passa di palestinesi rinchiusi nel carcere a cielo
aperto che è Gaza.
Ziad Mimi ci ha anche illustrato non solo le cifre di
disponibilità di acqua per i cari usi sia ai palestinesi che
agli israeliani, evidenziando la sproporzione in base a diversi fattori
di equa ripartizione (criteri demografici, imprenditoriali, abitativi,
ecc.), ma anche come allocare tali risorse in maniera distributiva
giusta contemperando le esigenze di sopravvivenza di ciascun abitante
quelle terre semi-aride tra il Mediterraneo e il fiumiciattolo Giordano
al confine con la Giordania.
Circa il 30% delle disponibilità di acqua nella regione proviene
dalle Alture del Golan, che Israele ha strategicamente occupato sin dal
1967, e ora capiamo non certo per tenere sotto scacco Damasco a tiro di
cannone (lo teneva sotto scacco anche prima dell'occupazione e della
colonizzazione degli altipiani confinanti con la Siria).
Infine, migliore luce si è data al percorso zigzagante del
Muro che si distacca sensibilmente dalla linea Verde, che già
lineare non era, che segna la divisione ufficiale, ai sensi
dell'armistizio del 1967 che a livello internazionale non riconosce
tuttora l'occupazione della West Bank operata dalle truppe di Moshe
Dayan in appena sei giorni. Oltre a ghettizzare in vari bantustan una
serie di città palestinesi – emblematico lo strangolamento di
Qalqilya, circondata dal muro e da cancelli aperti esclusivamente dalle
6 di mattino alle 18 di pomeriggio solo per recarsi al lavoro sulle
terre confiscate o separate violentemente dal tracciato del muro
recintato e esteso con corridoi militarizzati e altre sofisticate
apparecchiature di controllo – il percorso perimetrale del Muro si
incava talvolta per consentire agli insediamenti coloniali di
appropriarsi di diversi pozzi di acqua potabile utilizzati per le
esigenze di vita e di lavoro dei villaggi arabi.
Questa realtà, che le mappe mostrateci da Ziad Mimi evidenziano
meglio di qualunque discorso, disegna sul campo una sovranità
limitata da parte dell'emergente stato palestinese ai sensi della Road
map sostenuta dal Quartetto (Usa, Russia, Unione europea e Nazioni
Unite). D'altra parte, il gioco al massacro del regime democratico di
Israele ormai delinea anche le strategie di contrapposizione di una
comunità internazionale che fosse fedele alle numerose normative
che condannano Israele (dal non riconoscimento dell'occupazione manu
militari della West Bank e di Gerusalemme capitale dello stato ebraico,
per esempio, al divieto di colonizzazione o deportazione con
abbattimento di case secondo gli articoli della Convenzione di Ginevra
del 1949). Infatti la storia ci offre il caso di un altro regime che
aveva fatto dell'apartheid il proprio stile di dominio, ossia il
Sudafrica, che definiva terrorista Nelson Mandela condannandolo a
decenni di galera esattamente come oggi i tribunali della democrazia
israeliana seppelliscono con sei ergastoli Barghouti. Solo l'isolamento
internazionale e il boicottaggio del Sudafrica ha posto le premesse
culturali e politiche per il crollo a medio termine del regime
discriminatorio e razzista; si ha ragione di pensare che un analogo
itinerario possa risultare altrettanto fruttuoso per le popolazioni
coinvolte in tempi più rapidi, data la condizione economica non
certo paragonabile tra Israele e Sudafrica, mentre solo il peso
politico del maggiordomo a stelle e strisce che copre la prima marca
una differenza dal caso della seconda nazione.
Massimo Tessitore