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Umanità Nova, numero 24 del 3 luglio 2004, Anno 84

Carri armati pesanti, salari leggeri
Sangue, miseria, oppressione



L'intervento militare italiano in Iraq è stato, su decisione del governo, ulteriormente prorogato sino a tutto dicembre; iniziato nel giugno 2003, doveva concludersi il 30 giugno, con il previsto passaggio dei poteri al governo provvisorio iracheno, invece va avanti e tutt'altro che allegramente.

Per far fronte al peggioramento della situazione, il contingente è stato rafforzato sul piano tattico con carri amati Ariete e veicoli corazzati da combattimento Dardo in aggiunta agli autoblindo Centauro armati con cannone da 105 mm, ai cingolati M113 e ai veicoli Torpedo già in dotazione, mentre si stanno approntando le misure di difesa elettronica e le blindature sugli elicotteri d'attacco Mangusta il cui invio è previsto per settembre.

Anche senza essere esperti militari, appare ormai chiaro che l'attuale missione italiana tutto può definirsi fuorché umanitaria o di pace come voleva la propaganda, così come si sta proiettando una luce ancor più spettrale sugli "esportatori di democrazia e libertà".

D'altra parte le centinaia di vittime, in larga parte civili iracheni, causate dal fuoco dei militari italiani a Nassiriya lo scorso 6 aprile non lasciava da tempo dubbi in proposito.

Le forze italiane della missione "Antica Babilonia" assommano, secondo le ultime notizie, a 3.042 militari appartenenti alla brigata corazzata Ariete, al Comsubin e al reggimento S. Marco della Marina, al 6° Reparto operativo autonomo dell'Aeronautica, ai carabinieri e alla Croce Rossa.

L'Italia è sempre più in guerra e sempre più subalterna alle direttive del governo Usa, mentre gli italiani medi si tormentano per la disfatta della Nazionale in Portogallo.

E la fine dell'impresa tricolore oltremare si allontana, senza che neppure s'intraveda una via d'uscita, tanto che comincia a diventare credibile quanto preventivato nello scorso febbraio dal generale Sanchez, comandante in capo delle truppe Usa in Iraq, che prevedeva la permanenza delle truppe italiane sino al 2009.

D'altra parte la strada imboccata dall'amministrazione Bush promette soltanto scenari di guerra prolungata.

Il cosiddetto governo di transizione, ad esempio, è a tutti gli effetti un governo fantomatico la cui esistenza si regge esclusivamente su oltre 160 mila militari delle truppe d'occupazione (di cui circa 138 mila degli Stati Uniti) e almeno 30 mila agenti "di sicurezza" privati al soldo delle compagnie petrolifere e delle imprese straniere che hanno giocato la carta del business postbellico.

La stessa composizione del governo che dovrebbe rappresentare le diverse componenti della società irachena è emblematica: non soltanto il capo del governo, Iyad Allawi, è un ex-oppositore protetto per decenni dalla Cia, oltre che dall'Intelligence britannica e saudita; ma è difficile trovare un neo ministro che non abbia avuto rapporti con i servizi segreti Usa.

Inoltre - dato che comunque la classe non è acqua - va sottolineato il fatto che tutto l'esecutivo se dal punto di vista etnico-religioso appare diversificato, da quello dell'estrazione sociale appare assolutamente omogeneo, in quanto espressione dei ceti borghesi, delle famiglie più ricche e dei potentati religiosi.

Nessuna meraviglia quindi se, mentre si parla di elezioni democratiche programmate per il gennaio 2005, le prime misure prese dal governo di Allawi sono da stato di polizia: incremento degli arruolamenti nella polizia e nelle ricostituite forze armate (entro gennaio il nuovo esercito dovrebbe arrivare a contare 35 mila uomini, il corpo della difesa civile 40 mila e la polizia 90 mila), poteri emergenziali, legge marziale, scioglimento delle milizie, disarmo della popolazione, ripristino della pena di morte.

Un simile governo, collaborazionista con gli occupanti stranieri che ricicla funzionari ed aguzzini del passato regime, incapace di garantire migliori condizioni di vita ai settori sociali più miseri e di tutelare gli interessi dei lavoratori ostaggio della privatizzazione statunitense, più che avviato verso la pacificazione sembra destinato a sollevare una guerra civile generalizzata.

Le dilaganti diserzioni tra le fila della polizia e dell'esercito iracheni, così come i sabotaggi e gli incendi degli oleodotti e delle infrastrutture petrolifere che in queste settimane si susseguono da Bassora a Kirkuk, sembrano a tutti gli effetti confermarlo.

In Italia però neanche le cosiddette opposizioni parlamentari sembrano rendersene pienamente conto e, continuando a nutrire illusioni sul ruolo dell'Onu che peraltro ha annunciato di non voler tornare in Iraq stante l'attuale situazione di guerriglia e attentati, non riescono ad arginare l'interventismo governativo che attualmente vede circa 10 mila militari italiani impegnati con la Nato e gli Usa in Iraq, Afganistan, Balcani e Medio Oriente.Tanto che, paradossalmente, persino quella che da qualche tempo la stampa definisce curiosamente come "sinistra radicale" (Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani) si dichiara contraria alla politica di guerra del governo italiano, ma poi la subisce nel momento in cui ritiene accettabile la presenza militare italiana in Afganistan o nei Balcani, in quanto una posizione davvero radicale a riguardo metterebbe in crisi i rapporti elettorali tra questi partiti e i Democratici di Sinistra che a suo tempo votarono a favore del contingente italiano a Kabul e decisero, essendo al governo con Verdi e Comunisti Italiani, di partecipare all'aggressione in Kosovo nel non lontano '99.

La guerra, d'altronde si sa, fa perdere la memoria.

U. F.















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