Umanità Nova, numero 24 del 3 luglio 2004, Anno 84
Purtroppo, la dura realtà della vita ci obbliga a misurarci
con situazioni che non avremmo mai voluto conoscere. Cresciuti nel mito
di Tex Willer, il leggendario Aquila della notte capo degli indiani
navajos, abbiamo continuato, mese dopo mese, ad ogni uscita dell'ultimo
numero di Tex, a identificarci e a solidarizzare con quel suo nobile
popolo di pacifici pastori e valorosi difensori dei propri diritti, che
rappresentavano un simbolo inossidabile della lotta degli oppressi
contro le ingiustizie del mondo mercantile, imperialista e militarista
dei "bianchi". Insomma, fra i tanti miti che, per fortuna, danno senso
alle nostre esistenze e sostanza ai nostri immaginari, anche quello del
popolo navajo, nobile comunità di fieri uomini liberi, non
sfigurava di certo.
Ma porca miseria, neanche più questo!
Ci è capitato di leggere, infatti, in questi tempi sempre più tristi e deprimenti, che un folto e addestrato contingente di navajos si recherà nella lontana Polonia, terra di visi pallidi che più pallidi non si può, per mettere le loro millenarie e straordinarie capacità di segugi al servizio della lotta... ai clandestini. Abilissimi nel seguire le tracce, come è noto, e nel riconoscere il passaggio di un uomo anche solo da un filo d'erba spezzato, sfrutteranno questa loro primordiale conoscenza "tecnologica" non per dare del filo da torcere, come sarebbe più giusto, a banditi, lunghi coltelli e ladri di cavalli, ma per beccare sul fatto un qualche disgraziato fuggiasco ucraino o moldavo che avesse tentato di passare "clandestinamente" quelle linee fittizie disegnate sulle carte geografiche che una cultura burocratica ed egoista si ostina a chiamare confini. Ma come, un popolo abituato a vivere nei liberi spazi dei deserti e delle mese dell'Arizona, geneticamente incapace di intendere concetti come recinti, confini, proprietà della terra e delle acque, prostituisce i suoi uomini più esperti nelle ataviche conoscenze, utilizzando quelle stesse tecniche che gli permettevano di vivere in libertà, per metterle al servizio del potere e della repressione? E consegnando a stolide e minacciose autorità, dei poveracci la cui "illegalità", come già fu per la loro, nasce solo nella fuga dalla miseria e dalla disperazione?
Non c'è proprio religione, neanche più gli indiani, ormai!
E invece no, perché, a restituirci il mito della frontiera
quale siamo abituati a conoscere, con il Settimo cavalleria impegnato a
combattere i selvaggi e a "colonizzare" i territori nemici, ci pensano,
questa volta, gli strateghi del Pentagono, con Wolfowitz e Rumsfeld,
come al solito, in prima fila. E le esperienze del genocidio dei nativi
d'America diventano ora utili strategie per altri, seppur ancora
abbozzati, genocidi. Sempre dai giornali, infatti, apprendiamo che, per
tentare di uscire dalle secche della guerra irachena, i capi dei lunghi
coltelli utilizzeranno, tra i molti altri, anche alcuni dei metodi con
i quali, nel corso dell'Ottocento, riuscirono a soggiogare, espropriare
e sterminare il glorioso popolo rosso. E che ora si tratti di un popolo
"olivastro" è differenza di poco conto.
Come si sa, la gloriosa cavalcata del generale Custer nei deserti
mesopotamici si è dovuta arrestare di brutto di fronte alla
imprevista resistenza del popolo iracheno che, a imitazione di quello
indiano che si rifiutò di subire la civiltà dei bianchi,
fa oggi una gran fatica ad accettare l'imposizione della loro
"libertà". Di conseguenza i piani militari che prevedevano
guerre lampo e facile controllo del territorio devono ora ridisegnarsi
per far fronte alla estenuante guerriglia delle tribù arabe. Ed
ecco, quindi, il ricorso alle analogie con le guerre indiane: se sono
andate bene quelle, chissà che anche questa!
Apprendiamo così che i cervelloni del Centro studi del Pentagono non si accontentano di studiare le tattiche di contenimento dei parà francesi in Algeria (con relative e sistematiche torture) o dell'esercito israeliano, con i suoi "attacchi mirati" o "ritorsioni in territorio ostile", ma hanno rimesso mano, addirittura, all'analisi degli errori tattici commessi nella battaglia del Little Big Horn e di quelli strategici nel tentativo di mantenere la presa sullo sterminato territorio del Far West. Consapevoli della presuntuosa superficialità con la quale si sono fin qui mossi, vengono ora rispolverando il concetto di "fortino" quale avamposto isolato ma ben protetto "dal quale lanciare raid con la cavalleria del cielo e reparti blindati", assimilando al tempo stesso la funzione della costituenda polizia irachena a quella, ben poco nobile, degli scout indiani, veri e propri traditori prezzolati dei loro fratelli. Il tutto corredato di un consistente aumento delle giacche azzurre, indispensabile per far fronte al controllo di un territorio dove ogni collina e ogni tepee nascondono un selvaggio assetato di sangue. Sperando così che, come in passato gli interessi espansionistici del capitale americano si realizzarono nello sterminio dei legittimi "proprietari" delle terre e delle risorse da espropriare, oggi questi stessi interessi possano avere nuovo compimento facendo tesoro degli errori e delle esperienze precorse.
E così, se non altro, le cose si rimettono a posto. I buoni del nostro immaginario tornano ad essere i buoni ed i cattivi i cattivi. Anche se le crudeltà, le sofferenze e le infamie che accompagnano questa orribile guerra, come tutte le altre guerre, non sono, purtroppo, relegate nelle pagine di Tex Willer, ma fanno parte di un'insopportabile realtà nella quale, se è facile individuare i "cattivi" è ben più difficile trovare i "buoni".
Massimo Ortalli