Umanità Nova, numero 24 del 3 luglio 2004, Anno 84
Quando ad inizio di anno mi sono recato nel sud-kivu - quell'area del Congo al confine con Ruanda e Burundi, teatro del genocidio dei tutsi e degli hutu moderati una decina di anni addietro - una via di arrivo da Kigali, capitale del Ruanda dotata di aeroporto internazionale, passa da una splendida foresta costellata di alberi secolari e piantagioni di te incoraggiate dai programmi della Banca mondiale come strategia di sviluppo del minuscolo paese martoriato. Sui valichi di tale passo, più che a presidio delle bellezze ambientali, le pattuglie dell'esercito regolare di Paul Kagame, uomo forte del regime politico ruandese, controllano le migliaia di combattenti del genocidio rifugiatisi appunto nelle foreste.
Anche sul versante congolese, lungo la strada dissestata che costeggia il lago Kivu (che nulla ha da invidiare al nostro lago di Como, tranne la viabilità: per raggiungere la pista polverosa dell'aeroporto di Bukavu, capoluogo del sud-kivu, occorre un'ora di tragitto in un buon fuoristrada per colmare la ventina di km), abbiamo notato la presenza vistosa di una serie di uomini armati, dalle divise improbabili e personalizzate (nel senso che qualcuno aveva anche la maglia di Ronaldo e di Baggio…), dagli stereo alla gangsta rapper, e dal kalashnikov perennemente in mano. Presidiavano il lago, come se una ipotetica minaccia potesse provenire via acqua, ma presidiavano anche il versante delle montagne, al cui interno la base militare coincide con la base dell'ente del Parco naturale dove si sono rifugiati dallo sterminio dei bracconieri e dei combattenti irregolari del genocidio le ultime famiglie di gorilla africani.
Al soldo dei genocidari, questi militari integravano la paga con il bottino di razzie, mentre oggi sopravvivono con la paga del soldato più o meno regolare dell'esercito congolese, in base agli accordi di pace promossi dalla mediazione sudafricana. In realtà la smilitarizzazione delle guerriglie è una faccenda maledettamente seria, gli esempi modellati secondo le metodologie delle Nazioni Unite hanno funzionato solo in Guatemala dove era restato integro un tessuto comunitario sconquassato dagli squadroni della morte (col sostegno Usa dell'allora ambasciatore Negroponte, quello che oggi sostituirà Bremer quale uomo amerikano a Baghdad); la povertà e la guerra sono brutte abitudini difficili da sradicare e da riciclare in altre forme, a meno che non si investa molto in termini di opportunità, di denaro fresco, di programmi seri di sviluppo e reinserimento sociale, e via dicendo.
Nulla di tutto questo è avvenuto in Congo, e l'unica presenza dell'Onu consiste in una manciata di genieri giapponesi della Monuc che non ha il mandato di ingaggio di tutelare i congolesi, vittime di ogni scorribanda; anzi, dopo le proteste per la mancata difesa, a Kinshasa le truppe Onu hanno addirittura aperto il fuoco non verso i facinorosi, ma verso la folla che deplorava l'atteggiamento ipocrita tipico dei funzionari internazionali, ben pagati e equidistanti di fronte alla morte altrui.
A cavallo tra maggio e giugno, infatti, Bukavu è stata occupata per una settimana dalle truppe irregolari di un mini-signore-generale della guerra infinita che ha già seminato tre milioni di morti negli ultimi anni, il quale non aveva accettato il suo personale programma di recupero, rieducazione e reinserimento nell'esercito ufficiale congolese, che ha tra le sue caratteristiche quella di integrare i quadri ufficiali del passato in area diversa dal feudo che la guerra ha consentito loro di ritagliarsi, per prevenire incrostazioni di potere militare, politico, economico.
Alla mercé delle truppe irregolari, posso immaginare la disperazione della popolazione di Bukavu, che dopo anni di massacri e vessazioni sperava di essersi lasciata alle spalle quel periodo di terrore. Le poche immagini pervenuteci di questa guerra dimenticata dall'occidente - in buona compagnia con quella del Darfur sudanese, ad esempio - hanno fatto riemergere alla mia memoria posti conosciuti, con qualche viso di commerciante, di vigile urbano alle prese col traffico sgangherato di vetture giapponesi acquistate di quinta mano negli emirati arabi, di tassinaro che per poche banconote annerite dall'uso porta da un capo all'altro delle colline su cui si erge Bukavu.
Perché la guerra non è solo diamanti, coltan, minerali preziosi per noi occidentali, oppure il metano sotto la conca del lago vulcanico, ma anche e soprattutto uomini e donne, bambini e anziani, vittime per tutta la vita della povertà, dell'infelice alimentazione, della precaria sanità, della casuale istruzione, dell'ostinata volontà di potere che in quelle aree dimenticate dalla giustizia sociale, e pertanto arena di scontri per il dominio, registra la canna del fucile come l'unico mezzo di formazione del controllo sociale su masse diseredate da sterminare e da piegare alla forza di imposizione di un pugno di individui senza scrupolo, capaci di vendersi i propri fratelli e le proprie sorelle per soddisfare le richieste pulite di un business illecito di spregiudicati affaristi internazionali e per soddisfare le proprie ambizioni di intermediario politico avido di speculare la quota di sua spettanza garantendo un ferreo controllo del territorio e della popolazione.
Proprio l'eredità peggiore che la modernità occidentale, individualistica, borghese e capitalistica, abbia potuto inoculare tramite il virus coloniale alla millenaria civiltà comunitaria africana.
Massimo Tessitore